E’ stata definita una guerra a bassa intensità o a riflettori alterni, dal momento che, pur non segnando soste e minacciando anzi di estendersi all’intero Medioriente e non solo, se ne parla a fasi alterni sulla stampa e nei media internazionali.
Secondo un’Ansa di poche ore fa, in Siria, i ribelli avrebbero liberato la città di Saraqeb, località strategica nel nord del Paese, che si trova all’incrocio di due importanti arterie nazionali: l’autostrada Damasco-Aleppo (sud-nord) e quella Latakia-Aleppo (ovest-est); liberata un mese dopo quella di Maarrat an Numaan, cittadina 30 km più a sud e anch’essa situata lungo la strada Damasco-Aleppo.
I media ufficiali non fanno menzione né della liberazione né della battaglia nella quale, secondo quanto affermato su Facebook dagli attivisti, sarebbero stati uccisi 28 soldati governativi, una decina dei quali ‘giustiziati’ dai ribelli.
Per risposta, le forze fedeli ad Assad hanno bombardato stamani con l’artiglieria Saraqeb e i suoi dintorni, così come fanno ormai ogni qual volta non sono più in grado di raggiungere con la fanteria le località conquistate dai rivoltosi.
Nel frattempo si è anche appreso che sono 78 i soldati governativi uccisi ieri, la gran parte negli attacchi ai checkpoint a Idlib, nel nord, durante una battaglia in cui sono morti, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, 184 i persone, fra cui almeno 104 civili.
Continua anche la battaglia diplomatica fra potenze, con il portavoce del ministero degli Esteri russo Alexander Lukashevich, che, in un comunicato diramato oggi, denuncia l’ingerenza degli Stati Uniti, che, con la proposta di creare un governo siriano di opposizione in esilio, incoraggiano l’opposizione siriana a rovesciare il regime di Bashar Assad.
Intanto, ci dice Adnkronos, il numero di rifugiati siriani in Turchia e’ arrivato a quota 110.649, secondo i dati forniti dalla direzione Disastri ed Emergenze dell’ufficio del primo ministro turco (Afad), spiegando che gli stessi sono stati collocati in cinque tendopoli allestite nella provincia di Hatay, due in quella di Sanliurfa, tre in quella di Gaziantep e una a testa in quelle di Osmaniye, Kahramanmaras e Adiyaman, oltre ad un campo con container nella città di Kilis.
Ieri, 1° novembre, i residenti, hanno denunciato il tentativo delle milizie lealiste di dare fuoco alla moschea sunnita Abu Bakr al Siddiq, come risposta ad un attentato dinamitardo nei pressi del santuario sciita di Sayida Zeinab alle porte di Damasco, avvenuto il 31 ottobre, in cui una autobomba aveva provocato la morte di 11 persone.
Il sobborgo, oggi a maggioranza sunnita, è il luogo dove sorge uno dei santuari sciiti più importanti del mondo (intitolato appunto a Zeinab, nipote di Maometto e figlia di Ali capostipite degli sciiti), meta di pellegrinaggio di centinaia di migliaia di fedeli, provenienti soprattutto da Iraq, Libano e Iran.
Dall’inizio delle proteste popolari nel 2011 represse nel sangue e in seguito trasformatesi in rivolta armata, i residenti del paese si sono sollevati contro il regime, che a sua volta ha dato vita a dei “comitati popolari” costituiti da miliziani sciiti “a protezione del santuario”.
Tornando allo scenario internazionale, domenica prossima Serghei Lavrov, ministro degli esteri russo, sarà al Cairo per una serie di incontri che si concentreranno sulla crisi siriana e anche sulle relazioni bilaterali fra i due paesi ed incontrerà il presidente egiziano Mohamed Morsi e il ministro degli esteri Kamel Amr, oltre ad essere a colloquio con il segretario generale della Lega araba Nabil el Araby.
Domani, invece, lascia la capitale egiziana l’inviato speciale Onu-Lega Araba per la Siria Lakhdar Brahimi, che nei giorni scorsi è stato in missione a Mosca per cercare di trovare una mediazione per porre fine alla guerra in Siria.
Due giorni fa, i due principali sostenitori regionali dei ribelli siriani, la Turchia e il Qatar, sono tornati a esprimere le loro posizioni e il premier del piccolo regno del Golfo, Hamad ben Jassem Al Thani, ha definito il conflitto in Siria “una guerra di sterminio contro il popolo siriano”, mentre il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu ha respinto la proposta di Mosca – alleato di ferro di Damasco – di avviare un dialogo col regime del presidente Bashar al Assad.
Inoltre, in un’intervista all’emittente ‘al-Jazeer, il premier e ministro degli Esteri del Qatar, Hamad Bin Jassem al-Thani, ha sottolineato che la “guerra di sterminio” nel Paese arabo e’ stata condotta “con il permesso di uccidere in primo luogo del governo siriano e al secondo posto della comunità internazionale” per l’atteggiamento di alcuni paesi in seno al Consiglio di Sicurezza Onu.
Ciò che è drammaticamente stupefacente è vedere, giorno dopo giorno, che la diplomazia non riesce a fare il suo mestiere, che non c’è una reale e ben intenzionata ricerca di intese capaci di creare un fronte unito della comunità internazionale, sicché nulla sembra fermare questa atroce e quotidiana conta dei morti.
La Siria è sotto stato di emergenza dal 1962 ed il 15 marzo 2011 è percorsa da timide manifestazioni anti-regime, che però solo a Der’a, capoluogo della regione agricola e tribale del Hawran (tra le più povere del paese), sfociano, dal 18 marzo in proteste di massa senza precedenti, represse con la forza dai militari. Da allora, si sono succedute rivolte su scala nazionale, per poi divenire guerra civile nel 2012. Secondo Gilbert Achcar, docente presso la Scuola di studi orientali e africani dell’Università di Londra, quella siriana è una ribellione contro una tirannia ereditaria, con un movimento che riunisce operai, contadini e piccoli borghesi e anche frange della borghesia. Ed è innanzitutto una rivoluzione democratica, nel quadro di una dinamica messa in moto di contraddizioni socio-economiche imponenti.
Lo stesso studioso, che aveva previsto da subito la militarizzazione della rivoluzione, a differenza di quanto accaduto in Egitto e Tunisia, ha spiegato anche che il regime siriano è sostanzialmente diverso da quello degli altri due paesi, perché in Siria, come precedentemente in Libia, esiste un legame organico tra l’istituzione militare e la famiglia regnante, mentre in Egitto e in Tunisia, Mubarak e Ben Ali provenivano dall’istituzione militare ma non ne erano gli artefici. Ma ha anche aggiunto che i dirigenti occidentali oggi giudicano molto negativamente l’espansione dell’organizzazione Al-Qaida in Siria e se intravvederanno la possibilità di un intervento diretto, non sarà per amore del popolo siriano, ma unicamente in ragione del loro timore di Al-Qaida e di gruppi simili. Anche in Libia un uguale timore per la deriva della situazione e il tentativo di prendere il controllo del processo di cambiamento ha motivato il loro intervento, che tuttavia, a ben vedere, è miseramente fallito.
Secondo lo studioso, infine, anche la cosiddetta soluzione yemenita alla quale ha fatto appello Obama, insieme ad altri e che consisterebbe nel passare attraverso un accordo con il principale sostenitore di Assad, la Russia, affinché lo abbandoni come i sostenitori sauditi hanno abbandonato Ali Abdallah Saleh, è una pura illusione, proprio perché, come già ricordato, , gli apparati centrali dello Stato sono organicamente legati alla famiglia regnante in Siria e sono costruiti su basi confessionali ed è quindi impensabile che abbandonino il potere senza una sconfitta sul terreno, anche si arrivasse ad un’uscita di scena di Bashar el-Assad come è accaduto con Ali Abdallah Saleh in Yemen.
E, sempre nella stessa intervista rilasciata in arabo a Oudai al-Zoubi per il quotidiano Al-Quds Al-Arabi, tradotto in francese per A l’Encontre, Achcar concludeva dicendo che ciò che soprattutto va evitato è lo scivolamento verso una guerra confessionale che porterebbe, invece, al prolungamento del conflitto e all’allargamento della base del regime di Assad piuttosto che a un suo restringimento.
Pertanto la soluzione risiederebbe nel costruire reti di resistenza popolare intorno ad una carta democratica che rifiuti chiaramente il confessionalismo, di cui invece già si scorgono segnali evidenti.
Carlo Di Stanislao
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