Di solito il secondo mandato di un presidente è più libero e sereno, ma quello iniziato da Obama esordisce nel modo peggiore, con le dimissioni a sorpresa di Petraeus e due fidatissimi, la Clinton, ministro degli esteri e Geitnher, segretario del Tesoro, che hanno annunciato che non intenderanno continuare a ricoprire i loro incarichi nel mandato che inizierà a gennaio.
La questione più spinosa, per ora, è comunque il caso Petraeus, eroe nazionale dell’Iraq e dell’Afganistan, che, tre giorni fa, si è pubblicamente dimesso denunciando, in una lettera, il rapporto con la sua biografa Paula Broadwell.
La vicenda, che ogni giorno si aggroviglia, vede ora protagonista una seconda donna: Jill Kelley, 37 anni e ufficiale di collegamento presso il Dipartimento di Stato al Central Command di Tampa, in Florida, luogo da dove Petraeus si occupava di Afghanistan.
La Kelley si sarebbe rivolta all’agenzia federale perché era divenuta oggetto di attacchi anonimi via posta elettronica da parte della Broadwell, che la considerava una rivale.
Risalendo nella corrente dei messaggi, gli investigatori hanno scoperto l’identità del mittente e con lei la relazione sessuale che univa quest’ultima al capo della Cia. Sempre secondo la versione dell’Fbi, le conclusioni dell’inchiesta sarebbero arrivate sul tavolo del superiore in comando di Petraeus, il direttore della National Intelligence James Clapper, il tardo pomeriggio di martedì, 6 novembre, giorno in cui il paese era mobilitato dalle elezioni presidenziali.
Il giorno dopo la comunicazione è arrivata al consigliere per la Sicurezza nazionale Tom Donilon, che ha avvertito il presidente che ha subito incontrato Patraeus, che si è presentato all’incontro con la ormai celebre lettera di confessione-dimissioni, già completamente scritta.
A rendere la cosa più complicata è il risvolto politico, con la rivelazione del capogruppo dei repubblicani alla camera Eric Cantor, accanito persecutore di altri scandali dell’amministrazione Obama, che al New York Times ha dichiarato che era stato informato dell’inchiesta già il 31 di ottobre e specificato che la sua prima reazione è stata quella di assicurarsi che il capo dell’Fbi Muller fosse anche lui a conoscenza dell’inchiesta e della sua potenziale pericolosità.
Ma allora perché non l’ha comunicata anche al presidente della Camera, il repubblicano John Bohener o ad uno dei membri repubblicani della commissione per la National Intelligence, i quali avrebbero potuto renderla pubblica e imbarazzare Obama alla vigilia delle elezioni?
Le illazioni sono molte e moltissime le ipotesi, mentre nel turbinio degli annunci e dei mormorii, una cortina di protezione è scesa sulle persone coinvolte: dal generale Petraeus a sua moglie Holly che lavora a Washington nell’assistenza ai veterani di guerra; da Paula Broadwell a suo marito e i due figli, tutti invisibili e al riparo dai media.
Qualche spiraglio di luce potrebbe arrivare a partire da giovedì, quando due commissioni parallele del Congresso apriranno i lavori di inchiesta sulla vicenda dell’attacco all’ambasciata di Bengasi, con il repubblicano Peter King, che presiede quella della Camera, che insiste nel richiedere la convocazione in aula del generale Petraeus, già iscritto in calendario prima dello scoppio dello scandalo e poi cancellato in seguito alle sue dimissioni.
Sono in molti, dentro e fuori dagli USA, a ritenere che tutta la vicenda sia legata ai malumori interni alla Cia per il nuovo modo di guidare l’agenzia da parte di Petraeus, ex militare non gradito a tutti a Langley e che, dopo il fallimento dell’11 settembre a Bengasi, non ha sufficientemente difeso i suoi 007 dalle dure critiche per non essere riusciti a prevenire l’assalto al consolato-base Cia.
Di certo le dimissioni di Petraeus sono giunte in un momento molto delicato: come detto, il generale sarebbe dovuto apparire la prossima settimana davanti al Congresso per riferire sulla vicenda ed ora il congresso, se King non sarà esaudito, dovrà accontentarsi del suo vice, Michael Morrell, che per ora ne ha preso il posto, in attesa della nuova nomina presidenziale.
C’è anche un altro elemento che sta facendo discutere: il 13 luglio il New York Times ha pubblicato, nella rubrica “The Ethicist” di Chuck Klosterman, la lettera anonima di un lettore che poneva un dilemma decisamente particolare alla luce degli ultimi eventi.
Come ricorda oggi Repubblica, l’uomo chiedeva consiglio sull’opportunità di rivelare o meno la relazione di sua moglie con un personaggio di alto livello del governo, il cui lavoro “è visto in tutto il mondo come la dimostrazione della leadership americana”. Un uomo da lui incontrato alcune volte, dimostratosi piacevole e “persona assolutamente adatta all’incarico”.
E qualcuno si chiede se il lettore non fosse proprio il marito di Paula Broadwell, viste le coincidenze anche cronologiche del caso e non fosse stato meglio chiarire ed intervenire, molti mesi prima di questo novembre.
Oltre a problemi di ordine politico e d’immagine, Obama si trova nella urgente necessità di nominare un nuovo capo della Cia e le opzioni al vaglio sembrano essere tanto numerose da generare delle complicazioni aggiuntive.
C’è chi dice che a spuntarla potrebbe essere “l’interno” John Brennan, attuale consigliere per l’anti-terrorismo alla Casa Bianca, che dopo essere stato al fianco di George Bush, come direttore del National Counterterrorism Center e capo dello staff dell’ex direttore Cia George Tenet, sembra essersi avvicinato ad Obama
Altro possibile candidato è Tom Donilon, che appartiene alla squadra di sicurezza della Casa Bianca ed è consigliere per la Sicurezza Nazionale di Obama, con grande esperienza diplomatica, ma privo di diretta esperienza militare.
Infine, una donna (Obama ne ha nominate diverse, in ruoli chiave, nel suo precedente mandato): Jane Harman, ex deputato della California, che è stata fino allo scorso anno nella commissione Servizi ed ora è alla guida del Woodrow Wilson Center, anche perché non sarebbe la prima volta che Obama si rivolge, invece che ad un militare o un interno Cia, ad un politico, come è stato per il primo direttore da lui nominato, Leon Panetta, privilegiando l’esperienza nei rapporti con il Congresso.
Senza dimenticare, poi, che fu proprio Panetta a curare la regia dell’operazione che portò alla morte di Osama bin Laden, uno dei successi maggiori della precedente amministrazione Obama.
Se invece dovesse prevalere l’idea di avere una persona con esperienza militare, ci si potrebbe rivolgere a Jack Reed, senatore del Rhode Island, con una salda esperienza in tal senso.
Ma vi è anche un’altra possibile opzione, dal momento che Obama vuole aprire ai repubblicani. Quella di Dick Lugar, capogruppo Gop della commissione Esteri del Senato uscente, che negli anni passati ha assunto posizioni moderate e anche critiche nei confronti della politica estera di George Bush e che con Obama ha un rapporto personale di amicizia da quando accompagnò in missioni all’estero, l’allora giovane senatore dell’Illinois.
Si consideri, circa quest’ultima ipotesi, che Lugar è adesso senza scranno senatoriale, battuto alle primarie repubblicane da un candidato del Tea Party, a sua volta sconfitto nelle ellezioni di martedì scorso.
Comunque, anche se le dimissioni del generale che aveva vinto la guerra irachena costituiscono la prima vera “grana” sul tavolo di Obama nel suo secondo mandato, è possibile, a ben vedere, scenari molto più complicati e diversi.
In effetti, è un fatto inequivocabile che appena dopo la vittoria elettorale il presidente ha dovuto fare i conti con gli addii del segretario di Stato Hillary Clinton, del numero uno del Pentagono Leon Panetta e dell’economista Geitnher e questo potrebbe lasciar immaginare un cambiamento non solo nella politica interna, ma anche estera degli Usa, in questo secondo mandato.
Oppure, tutto è riconducibile ad un gioco delle parti, una trovata che consente a Obama di scaricare su altri le responsabilità del disastro di Bengasi (ma anche della politica che in Medio Oriente e Nord Africa, ha favorito, anche con le armi, l’affermazione dei movimenti islamisti a spese di regimi laici e filo-occidentali ed ha portato gli ayatollah iraniani a un passo dal possedere “la bomba”, con conseguente gelo nei rapporti tra Stati Uniti e Israele) e a Petraeus di salvare in modo onorevole una brillante carriera, che nei prossimi anni (il generale ne ha 60), potrà essere spesa anche in campo politico con la candidatura repubblicana alla Casa Bianca.
Oppure la bollente strada di questo ultimo sexgate, è lastricata da un po’ di tutto questo.
Carlo Di Stanislao
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