Esistono luoghi comuni duri a morire, esistono prese di posizione ripetute con una continuità tale da divenire regola certa, non passibile di eccezioni; una di queste, vecchia di decenni, dipinge il Continente Nero come una terra di dannati, dimenticata dall’uomo e dagli dei, martoriata dalla indigenza allo stato puro, da una natura ostile, da guerre tribali e da un quadro socio-politico perennemente allo sfascio, in cui le lotte per il potere e la violenza che ne consegue costituiscono l’unico elemento di riconoscimento, un sanguinoso marchio di fabbrica che ogni generazione trasmette a quelle successive.
Ed in effetti è impossibile non riconoscere come in Africa per secoli sia stato alimentato un fiume gigantesco, un ostacolo insormontabile fatto di miseria ed efferatezze dispensate a piene mani che ha relegato territori, individui e culture in una mortificante posizione di subalternità rispetto al resto del pianeta, purtuttavia in questa serie infinita di gironi danteschi si incomincia ad intravedere più di uno spiraglio di luce, tant’è che per una nutrita pattuglia di paesi è in atto da almeno un lustro un nitidissimo processo di sviluppo economico, da tradursi per le sue dimensioni in un vero e proprio boom di cui solo adesso gli economisti cominciano a prendere atto.
I dati a nostra disposizione asseriscono infatti che Costa D’Avorio, Sudafrica, Ghana, Kenya, Nigeria, Tanzania e Zambia sono entrati oramai stabilmente in una fase virtuosa, dando un calcio al sottosviluppo, triplicando il Pil ed incrementando il reddito pro-capite, sempre più vicino a quello dei paesi europei, sette realtà molto diverse tra di loro quanto a cultura, storia e tradizioni ma, ed è questo il punto focale, accomunate da quello che molto altri non hanno, enormi ricchezze contenute nel sottosuolo supportate per la prima volta da un’industria moderna e diversificata; accade così che mentre l’Europa si impoverisce progressivamente, a corto com’è di denaro e di idee, i sette leoni ruggiscono e di brutto, con la Nigeria primo produttore petrolifero del continente (nonché paese più popoloso) e che come tale beneficia dell’alta quotazione del greggio, il Sudafrica ricchissimo di oro, platino e diamanti ed il Ghana, il cui prodotto interno lordo cresce a ritmi vertiginosi superiori perfino a quelli cinesi, ben esemplificati da un + 14,4% registrato nel 2011, un risultato incredibile ma che da solo fotografa una situazione fino ad una decina di anni fa impensabile.
Sul punto gli economisti ancora non sono d’accordo, ma appare evidente come la svolta sia avvenuta agli inizi del 2000, quando secondo studi combinati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale la ricchezza pro capite degli africani è aumentata progressivamente di più di un terzo mentre la crescita non dipendente dalla produzione di petrolio a sud del Sahara ha avuto un incremento di quasi il sei per cento; ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile senza aiuti esterni e l’immissione a dosi massicce di capitali, il grosso dei quali provenienti dai membri del BRIC, Cina su tutti, che hanno perfettamente compreso le enormi potenzialità di un mercato “vergine” e dunque dalle prospettive di crescita inarrestabili.
La presenza cinese nelle economie africani, sia in termini di investimenti che dell’invio di personale altamente specializzato rappresenta oramai una costante, ma anche Brasile Russia ed India fanno la loro parte, con il risultato di creare in loco aziende ricche di capitali ed efficienti ed un’industria sempre più diversificata che fa leva in primis sulle immense ricchezze del sottosuolo, generando massicci ritorni occupazionali ed un sistema socio-economico per più versi nuovo di zecca. Si può così sostenere che lo sviluppo africano dell’ultimo decennio è un tutt’uno con l’affermazione dei BRIC, ma ancora più eloquenti sono i risultati, giusta i quali a partire dal 2003 i 48 stati a sud del Sahara hanno registrato una crescita compresa tra il 5 ed il 7%, sei tra i primi dieci paesi a più forte crescita mondiale sono africani e, in termini di ricchezza prodotta nel 2012, cinque hanno superato la Cina e ben ventuno l’India; per contro l’Africa nel suo complesso contribuisce appena ad un misero due per cento dell’interscambio mondiale, ma è proprio questo dato a dimostrare come i suoi potenziali di sviluppo economico siano enormi ed i risultati fin qui conseguiti costituiscano solo un robusto antipasto.
Gli aspetti negativi ovviamente non mancano e gli investimenti della Cina, in particolare, rischiano di creare per molti paesi una situazione di dipendenza anche sul piano politico che potrebbe preludere nel futuro ad un neocolonialismo camuffato, mentre la guerra continua a rappresentare un allarmante fattore di destabilizzazione, tuttavia anche su questo versante occorre esaminare il rovescio della medaglia; la Nigeria ad esempio è sconvolta da un conflitto che negli ultimi tempi ha visto emergere il fattore dell’integralismo religioso, con centinaia di vittime, ripetute aggressioni di fazioni islamiche ai danni delle comunità cristiane e frequenti ritorsioni da parte di queste ultime ma, paradossalmente, è proprio la ricchezza, nel caso in questione il controllo della produzione petrolifera e dei pozzi di estrazione che spuntano come i funghi, a scatenare quest’orgia di sangue e a rendere difficile la cessazione delle ostilità.
Giudicato dall’esterno il quadro che si offre ai nostri occhi rimane, e non potrebbe essere diversamente, quello di un enorme mosaico in via di composizione, con numerose incognite legate in particolare alla instabilità politica e a problemi dalla difficile soluzione, su tutti la piaga della malnutrizione e dell’analfabetismo, ma è indubbio che la formidabile crescita economica degli ultimi anni rappresenti un dato incontrovertibile, collocandosi come tale in una fase propulsiva che per intensità di sviluppo è seconda solo a quella asiatica; quel che più conta, tutti gli stati africani presentano enormi margini di miglioramento e potenzialità incredibili che, se sfruttate a dovere, porranno a breve molti di loro in posizioni di prima fila sul palcoscenico internazionale.
Giuseppe Di Braccio
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