Nella notte dell’11 gennaio 1943, Carlo Tresca viene ucciso da un colpo di pistola mentre esce dal suo ufficio di New York. Un delitto misterioso, attribuito ai comunisti, ai fascisti, alla mafia, a Generoso Pope, editore del “Progresso Italo-Americano”, che Tresca aveva più volte attaccato, definendolo “Re della Sabbia e Ghiaia” e poi “racketeer e gangster, quadrupede anafalbeta…vanitoso ignorante e presuntuoso…somaro indorato” (“Il Martello”, 14 novembre 1934).
Una commissione di amici di Tresca e di intellettuali americani, tra cui John Dos Passos, indaga per dieci anni, rivolgendo una petizione a Fiorello La Guardia, sindaco democratico di New York, ma invano, anche per l’indifferenza del Dipartimento di Giustizia. Il giudice istruttore Louis Pagnucco mirava a incriminare Vittorio Vidali, il leggendario Comandante Carlos delle Brigate Internazionali, il comunista triestino indicato anche come assassino di Trotzkji, versione ripresa anche in questi ultimi anni da Oreste Del Buono e Giorgio Boatti sulla “Stampa”, Antonio Monda sulla “Repubblica”, Francesco Durante sul “Centro”, dimenticando o ignorando che un amico di Tresca, lo scrittore Ezio Taddei, collaboratore del “Martello”, emigrato negli USA per sottrarsi alle persecuzioni fasciste, già il 14 febbraio 1943- un mese dopo la morte violenta di Tresca- aveva tenuto un discorso di denuncia in un meeting(uscito in libro, Il “caso” Tresca, ristampato nel testo inglese e in quello italiano da “Il Grappolo” nel 2006), in cui indicava chiaramente la responsabilità della mafia.
Martino Marazzi (“Misteri di Little Italy”, Franco Angeli, Milano 2001, pagg.67-81), autore di un penetrante saggio sulla “vicenda singolare e atipica” dello scrittore Ezio Taddei, evita forzature meccaniche sul “salto di campo” che pochi mesi dopo portò Taddei a collaborare con “L’unità del popolo”, giornale comunista di New York e poi, al suo rientro in Italia, con l’“Unità”, stringendo amicizie con i comunisti Guglielmo Peirce (finito a destra, autore di libri come Pietà per i nostri carnefici e Libertà provvisoria, collaboratore graffiante del “Borghese” di Leo Longanesi e critico impietoso di Gramsci, feroce di Togliatti e del “realismo socialista” e non benevolo anche con don Benedetto Croce) e Davide Lajolo, ex fascista, direttore dell’Unità, futuro autore de “Il voltagabbana”.
Gian Carlo Fusco, in uno dei suoi libri narrativamente più smaglianti, “Gli indesiderabili” (ristampato nel 2005 da Sellerio, con una nota di Andrea Camilleri), aveva riportato l’accusa di Taddei verso il mafioso Carmine Galante, confermata da Alfio Caruso nel suo” Da cosa nasce cosa. Storia della mafia dal 1943 a oggi” (Longanesi 2000), una sorta di bibbia della mafia. Ma chi aveva ordinato il delitto?
Efrem Bartoletti, minatore, sindacalista e poeta, che aveva conosciuto e lottato con Tresca durante lo sciopero dei minatori del Mesabi Range, collaboratore del “Martello”, gli dedicò una poesia: “Piangere i morti non fu mai vergogna, / specie se il morto meritò il compianto/ di quell’ambiente popolar che agogna/ d’ogni oppressor lo schianto…Riposa, o grande Apostolo! Sfuggire/ non potrà di Giustizia all’operato/ chi t’uccise e chi spinse ad eseguire/ l’ignobile mandato”.
Una personalità complessa ed un assassinio irrisolto: di questo si è parlato domenica 13 gennaio a Sulmona, nel convegno “Chi ha ucciso Carlo Tresca”, con interventi di Mauro Canali dell’Università di Camerino e Martino Marazzi dell’Università Statale di Milano, coordinati da Francesco Susi dell’ Università Roma Tre.
Evento conclusivo di una serie di iniziative pensate e realizzate dal Centro Studi “Carlo Tresca”, per ricordarne la figura, dopo la deposizione di una corona d’alloro sul busto a lui dedicato in città e la drammatizzazione di un’ ipotetica chiacchierata nella redazione del giornale “il Martello”, scritta da Concettina Falcone Salvini, il convegno ha ripercorso la storia e le modalità, rimaste oscure, dell’assassinio (presumibilmente attuato dalla Mafia, ma richiesto dal Fascismo per mezzo di Vito Genovese), dell’anarchico radicale Carlo Tresca, fuggito in America all’inizio del secolo scorso, poiché in Italia era stato condannato per diffamazione a mezzo stampa, dopo una serie di articoli sulle pagine de “il Germe”, di cui era editore, in cui denunciava le malefatte di clero e nobiltà.
Secondo altre ricostruzioni, a volere la morte del radicale Tresca non furono Mussolini ed i fascisti, bensì il Partito Comunista, con cui l’intellettuale sulmontino intrattenne rapporti assai alterni: inizialmente, verso la metà degli anni venti, ritenendoli alidissimi alleati in chiave antifascista (per questo strinse rapporti di collaborazione con lo stalinista italiano Vittorio Vidali, con cui collaborò alla costituzione (Alleanza Antifascista Nord Americani); poi, quando però Vidali divenne collaboratore dei servizi segreti sovietici, assolutamente critici, con continue denuncie di Tresca della sua attività cospirativa e col di entrare nella Mazzini Society (organismo “democratico borghese”, apertamente ostile a fascisti e comunisti) e “impossessarsene”.
Per breve tempo si ritrovò nuovamente a fianco dei comunisti all’interno dei Comitati d’Azione Antifascista,, ma, quando i comunisti statunitensi sabotarono lo sciopero dei lavoratori alberghieri di New York del 1934, i sovietici diedero vita ai grandi processi di Mosca del 1936-38 e gli stalinisti presero a reprimere con grande violenza gli anarchici durante la rivoluzione spagnola, ruppe definitivamente con lo stalinismo.
Nel 1936, aderì all’American Committee for the Defense of Leon Trotsky (ACDLT), costituito dal filosofo John Dewey e allo scopo di riabilitare Lev Trotzkij, ebbe rapporti epistolari con lui e quando Trotkij fu ucciso su mandato di Stalin, Tresca da “Il Martello” accusò Vittorio Vidali di essere l’esecutore materiale del terribile assassionio, definendolo “capo di spie, ladri e assassini” e denunciando il fatto che “dove c’è lui aleggia l’odore della morte”.
Col tempo il suo anticomunismo si radicalizzò, tant’è che quando Salvemini fondò la Mazzini Society, vi entrò accettando la pregiudiziale antifascista e anticomunista, da lui rispettata anche durante la fase iniziale di costituzione dei “Comitati della Vittoria” .
In una conferenza tenuta presso la sede del Centro di Servizi Culturali di Sulmona da parte della prof.a Elisabetta Vezzosi il 20 maggio 1994 , Giorno della memoria e pubblicata negli atti curati da Italia Gualtieri, intitolata “Tresca a 50 anni dall’assassinio”. La studioso ci dice che Tresca fu certamente assassinato, ma la sua morte violenta e mai risolta rischia ancora di oscurare la ricchezza della sua vita, ancora oggi modello per certo radicalismo americano di grande rilevanza.
Scrive nel 1951, a otto anni dalla sua morte, Max Nomad, amico di Tresca ed anche lui intellettuale anarchico, : “Egli non era uno di quelli che fanno storia del mondo. Se non fosse stato per il suo assassinio da parte dei suoi nemici politici, il mondo in generale non si sarebbe probabilmente interessato delle sue attività. Il suo campo era ristretto: era il mondo dei numerosissimi lavoratori italiani negli Stati Uniti”. E ancora “La storia della sua vita è in gran parte la storia del radicalismo operaio americano dall’inizio del secolo ad oggi. In certo modo, la sua integrità e vistosa personalità potrebbero servire per simboleggiare la psicologia del militante radicale che non si vende per tutta la vita in qualsiasi specifica associazione o per una specifica teoria. . Egli era di volta in volta socialista, anarchico, sindacalista, simpatizzante comunista e, alla fine, un libertario senza dogma, il quale persisteva a lottare … La morte di Carlo Tresca segnò la fine di uno degli “ultimi mohicani” del radicalismo indipendente” .
Qualche tempo la biografia di Nomad, un gruppo di amici di Tresca, riuniti sotto il nome di “Tresca Memorial Committee”, pubblica un opuscolo intitolato: “Chi uccise Carlo Tresca? , nel quale si legge: “Tresca amava chiamarsi anarchico. E se questo designa l’uomo assolutamente libero, egli era veramente anarchico. Ma dal punto di vista della dottrina pura egli era “tutto per tutti” e nel suo interminabile vagabondaggio intellettuale non cercò mai approcci effimeri o definitivi ancoraggi teorici”.
Il mistero sulla morte di Treasca resta legato al dubbio che potesse essere stato ucciso dai fascisti, dai comunisti (si era infatti allontanato dal comunismo internazionale dopo essere venuto a conoscenza delle purghe staliniane) o dalla malavita, dal momento che Tresca si era sempre battuto contro la corruzione politica.
Proprio a Sulmona, all’ inizio della sua militanza, egli aveva infatti denunciato la corruzione politica cittadina, un elemento che rimarrà un filo rosso della sua attività politica anche dopo l’emigrazione negli Stati Uniti.
Quando Tresca fu assassinato i giornali parlarono molto del caso, mentre gli storici si sono poco occupati di lui, ad eccezione di Nunzio Pernicone che da anni sta lavorando alla biografia di Tresca, di Philip Cannistraro che ha affrontato l’attività di Tresca nell’ ambito del movimento antifascista negli Stati Uniti e di Dorothy Gallagher che ne ha ripercorso la vita e l’assassinio .
In questo lavoro si sottolinea che Tresca non fu ambiguo, ma complesso, multiforme, sfaccettato, poliedrico: un uomo passato dal socialismo all’ anarchismo, all’ anarcosindacaIismo, al comunismo, all’ antifascismo, mai per opportunità di tipo politico o clientelare, ma per intima, progressiva convinzione.
Un uomo che si è battuto sino alla morte per la “giustizia sociale” e che, per raggiungere questo obiettivo, solo negli Stati Uniti è stato arrestato e condannato 36 volte.
Sicché i suoi passaggi di campo sono il frutto di una natura indomabile e passionale, il segno di una difficile e tortuosa crescita personale e politica.
Di volta in volta Tresca si è infatti avvicinato al mondo in cui in quel momento più si identificava. La sua forte personalità, il suo innegabile carisma, lo ha portato ad un eclettismo politico che non deve esser scambiato con l’ambiguità ma con un percorso personale anomalo, talvolta opinabile, ma certamente mai dettato da opportunismo.
Proveniente da una ricca famiglia di proprietari terrieri caduta in disgrazia a causa della crisi dei rapporti economici Italia-Francia, che aveva provocato un blocco delle esportazioni, Carlo non potè accedere agli studi universitari con futuro da medico o avvocato e, dopo una breve parentesi seminariale (voluta dalla madre e da cui dipese il suo fortissimo anticlericalismo), il padre cercò, senza successo, di avviarlo ad un incarico pubblico.
Questo perché, appurò poi il padre, il sindaco di Sulmona aveva inviato alle varie commissioni di concorso, di volta in volta, una velina in cui lo si indicava come un pericoloso sovversivo.
Escluso dagli incarichi pubblici, Carlo seguì l’istinto politico sfruttando le sue doti di oratore e intorno ai vent’anni divenne leader del sindacato dei ferrovieri, al contempo fondando il giornale “il Germe”, ove scrisse, sotto pseudonimo, anche il padre, convertito alla fede socialista, con articoli di fuoco in cui denunziava la corruzione politica e la condotta clientelare esistente a Sulmona e in Italia e, al contempo, impiegando il sindacato ferrovieri come baluardo più maturo degli altri, contro la dilagante repressione crispina, che condusse l’Italia a inserirsi a pieno titolo nell’età dell’imperialismo e creò le premesse della salita al potere del fascismo.
A fine ‘800 infatti, i ferrovieri con il loro sindacato, non solo era i più istruiti fra i proletari, ma costituivano la punta avanzata del movimento operaio italiano.
Con giustificazioni di ordine tecnico, legate al fatto che Sulmona stava divenendo un importante snodo ferroviario, molti ferrovieri del Nord, soprattutto macchinisti, furono trasferiti a Sulmona in modo da allontanarli dalle città nevralgiche e neutralizzarli. Invece, grazie al’aiuto di Carlo Tresca, il socialismo riuscì ad infiltrarsi nel tessuto conservatore della capitale peligna.
Vero leader politico dei pochi gruppi imprenditoriali del Sud, Francesco Crispi giunse a capo del Governo nel 1887 ed avviò una politica autoritaria accentrando su di sé quasi tutti i poteri.
Represse con grande fermezza ogni movimento popolare che in quei giorni era rappresentato soprattutto dai lavoratori che diedero vita a scioperi ed a vasti movimenti di piazza per protestare contro il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità, dovuto alla politica protezionistica del governo.
Crispi usò il pugno di ferro per reprimere il malcontento popolare e, nel 1893, inasprì la legislazione contro le organizzazioni operaie, compreso il PSI di Turati, Bissolati e Costa.
Proprio in quel periodo Carlo, attraverso i ferrovieri, si unisce ai socialisti del PSI (e non quelli di matrice cattolica riuniti nel Movimento Sociale Cattolico), nel tentativo di sensibilizzare i braccianti: una sorta di missione impossibile visto che a livello internazionale i contadini sembravano refrattari al socialismo.
In quegli anni il giovane Carlo compì un lavoro ammirevole ed estremamente capillare, approfittando della struttura urbana di Sulmona, che vedeva molti contadini abitare non in campagna ma in una fascia che potremmo definire sub-urbana e dunque pendolare tra campagna e città.
I loro luoghi di socializzazione e di ricreazione erano dunque in città: erano le taverne i luoghi in cui Carlo Tresca si recava a parlare con loro quotidianamente.
Visto, inizialmente, come il figlio stravagante del latifondismo terriero, la sua forte passionalità politica e la grande serietà, il suo sfidare ogni giorno l’arresto per oltraggio o adunata sediziosa, lo resero figura celebre anche tra i braccianti.
Sappiamo poi quale ruolo ha assunto la sua figura nell’esilio americano, tanto che John Dos Passos, che nel romanzo “Millenovecentodiciannove” aveva maltrattato l’Italia, conosciuta da soldato nella Grande Guerra con Hemingway, non solo dichiarerà la sua ammirazione “per la nuova spregiudicata mentalità italiana quale la incarnava ai suoi occhi l’anarchico Carlo Tresca”; ma, a Glauco Cambon, suo traduttore italiano, diceva in uno scambio epistolare che nel romanzo, “La riscoperta dell’America” (Mondadori, Milano 1954, introduzione di Glauco Cambon), si era ispirato a Carlo Tresca per la figura di Nick Pignatelli, così come il processo dei due anarchici Sabatini adombrava quello di Sacco e Vanzetti.
Dos Passos lo definì il personaggio che “sovr’altri come aquila vola” e fu certamente una santabarbara di istinti ribelli, un vulcano di passioni libertarie, un polemista implacabile che non aveva timore di nessuno, nemico del “barsottismo”(ossia la difesa dell’italianità e la cura dei propri interessi, secondo la filosofia e la pratica “coloniali” di Carlo Barsotti, fondatore del quotidiano “Il Progresso Italo-Americano”, un organo di promozione smaccata della persona e degli interessi economici del proprietario), irridente con i potenti e anticonformista con i compagni di lotta, avverso a tutte le dittature e ai doppiogiochisti, che si divideva tra uno sciopero e un arresto, duro anche con gli ex compagni come Domenico Trombetta, ex anarchico, fondatore di un giornale filofascista, “Il Grido della Stirpe”(che Tresca ribattezzò in “Grido della Trippa”).
Un uomo di straordinaria forza morale, dotato di una incontenibile carica vitale, disinteressato e battagliero come pochi, a rischio dell’isolamento, libero dai ceppi delle ideologie e delle religioni, immune da settarismi, un “ribelle senza uniforme” (secondo il già ricordato Max Nomad), un leader naturale capace di mobilitare masse di operai, un giornalista radical che con “Il Martello”- da lui fondato- seppe indirizzare i lavoratori italoamericani verso la militanza sindacale.
Una straordinaria figura che ha trovato una biografa splendida in Dorothy Gallagher, che nel 1988 ha scritto: “All the Right Enemies. The Life and Murder of CarloTresca”, non ancora tradotta in italiano.
L’autobiografia di Carlo Tresca, a lungo inedita, ha avuto un itinerario rocambolesco come la vita del suo autore, anche se era possibile consultarla come dattiloscritto (il manoscritto fu sequestrato dalla polizia)nella New York Public Library, poi è stata pubblicata nel 2003 a New York e nel 2006 in Italia, con introduzione e note di Nunzio Pernicone, in una costosa e scadente edizione, la cui “stupefacente sciatteria grafica e tipografica” ha lasciato di stucco qualche studioso come Martino Marazzi(“Archivio Pinelli”, n.24, 2005). Ispirata o dettata da Tresca, che non aveva una padronanza dell’inglese (fluente ed efficace nei comizi, risentiva della mancanza di basi nello scritto), l’autobiografia fu scritta, come detto, da Max Nomad, che per suo conto ha abbozzato una biografia (Carlo Tresca. Rebel without Uniform, 1951), il cui dattiloscritto giace per ora nel buio di un sottoscala della Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze.
Fu anche autore di opere teatrali Carlo Tresca: “L’attentato a Mussolini”, con prima i l 30 gennaio 1926 a New Haven ed ultima edizione a cura di Chadwyck-Healey Inc, nel 1987 ed i quattro atti “Il vendicatore. Dramma sociale antifascista “ con prima rappresentazione, il 7 aprile 1934 a New York.
Grande lettore di Silone (ma anche del D’Annunzio de “Le vergini delle rocce”, testo che lesse e rilesse con Elizabeth Gurley Flynn, la “Giovanna D’Arco” d’America, suo amante per un breve periodo), stimato da Lenin come rivoluzionario e da Claudia Salaris -in “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Il Mulino, Bologna 2002- quale anticipatore di tutte le avanguardie del “secolo breve”, Tresca, nel suo memoir non parla mai delle donne della sua vita, nemmeno della moglie Helga, della figlia Beatrice, di Margaret De Silver, la compagna dei suoi ultimi anni.
Un pittoresco, sintetico e significativo ritratto di Tresca lo ha schizzato Giuseppe Fiori (“L’anarchico Schirru, condannato a morte per l’intenzione di uccidere Mussolini”, Mondadori, Milano 1983, pag. 62): “Le sue grandi passioni erano: stuzzicare i preti, deridere i fascisti, ingurgitare spaghetti, tracannare vino e cambiare spesso l’amante”. Fu irridente con i potenti e anticonformista con i compagni di lotta, avverso a tutte le dittature e ai doppiogiochisti, che si divideva tra uno sciopero e un arresto, duro anche con gli ex compagni come Domenico Trombetta, ex anarchico, fondatore di un giornale filofascista, “Il Grido della Stirpe”: un personaggio esemplare per chi crede che un uomo debba avere una libera morale ed un incrollabile senso civile, non vincolato da nessuna ideologia.
La vita sua vita è la dimostrazione di come l’anarchismo sia per definizione un’ideologia sincretica, che nasce in contrapposizione al liberalismo e al socialismo proprio perché se questi ultimi hanno interpretato i valori della libertà e dell’uguaglianza in modo indipendente, esso li ha intesi come valori inscindibili. L’anarchismo, per Tresca come per Marco Grieco, ritiene impossibile pensare e attuare l’una se non pensando e attuando, contemporaneamente, l’altra. Di qui, appunto, la natura sincretica dell’ideologia anarchica: appena si fa riferimento ad un valore, ad un concetto, immediatamente questo richiama tutti gli altri, e tutti non reggono, da un punto di vista anarchico, se non pensando l’uno in riferimento all’altro. Ecco perché l’anarchismo è un’ideologia carica di ‘esagerazioni’, in cui ogni valore è assunto nella sua integralità effettiva e nella sua radicalità ontologica .
E rifacendosi a Tresca che Cornelius Castoriadis, filosofo e psicanalista francese d’origine greca, difensore del concetto di “autonomia politica”, scomparso nel 1997, afferma che bisogna “lavorare per sostituire un immaginario ad un altro immaginario di diversa significazione. Una società libera ed egualitaria non nasce da un atto rivoluzionario risolutore, ma dalla creazione di un immaginario radicalmente diverso dall’esistente nella misura in cui questo immaginario si costituisce nella consapevolezza di essere tale, cioè nella consapevolezza di essere creazione voluta, creazione arbitraria”.
E’ da Trersca, soprattutto, che Costariodis mutua l’idea che nell’ambito delle istituzioni umane, non esistono modelli teorici, ma solo una realizzazione che si produce nel tempo, al seguito di milioni di decisioni particolari e di singole condotte individuali.
In caso di fallimento, non si può far ripartire il meccanismo da zero, non si rigioca la partita come in un flipper, non c’è nessun “bonus” che possa essere assegnato allo stesso giocatore, ma solo un “game over”; si lascerà irrevocabilmente il posto ad altre istituzioni e ad altre esperienze sociali. Parimenti, il modo di produzione capitalistico ed il suo universo di sfruttamento non sono delle incarnazioni degenerate di una teoria del mercato in verità buona, queste non sono che creazioni immaginarie che finiranno per crollare, nessun governo potrà mai dire: “ricominciamo con il capitalismo, ma senza fare gli stessi errori del passato!”
Argomento, come si vede, di enorme attualità, in un momento in cui una parte politica che si definisce nuova e rivoluzionaria, afferma che il futuro può divenire migliore proprio migliorando l’idea propria del capitalismo: un’idea maligna, come scrive su MicroMega Lelio Demichelis, che è di fatto una nuova ‘banalità del male’, che è andata a colpire i deboli e non i patrimoni, il lavoro e non la finanza e la speculazione (rinviando persino la Tobin tax promessa), le pensioni e non i bonus dei manager; che ha tagliato ricerca istruzione e formazione (un paradosso nel paradosso, o un nichilismo nel nichilismo, essendo un governo di ‘professori’); che ha ridotto i diritti al lavoro, alla salute, all’istruzione, all’ambiente, alla cittadinanza (diritti costituzionali, che sarebbero quindi ‘indisponibili’), che ha impoverito la democrazia in nome dello ‘stato d’eccezione’, che teme i populismi che esso stesso ha creato e prodotto, senza però vedere la consequenzialità tra causa ed effetto.
Un ‘male’ (impoverimento, disuguaglianze, disoccupazione, rassegnazione), che viene imposto in modi molto ‘cattolici’ (ma certo non cristiani), come doverosa ‘testimonianza di fede’ neoliberista, una fede ideologica, il capitalismo come autentica religione secondo Walter Benjamin (una religione cultuale, “forse la più estrema che si sia mai data”; a durata permanente; capace di generare colpa; e con il suo dio ben celato), perché anche il capitalismo “serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini” di una religione.
Un ‘male’ che deve e essere accettato, accolto, sopportato, persino amato, perché questa sofferenza e questo ‘male’ sono il prezzo (ci dicono i teologi del capitalismo ed i teorici del “montismo”) da dover pagare per la salvezza di domani (la crescita, la ‘luce divina’ della crescita in fondo al tunnel) – o, come ancora scriveva Benjamin: “L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo, da cui attendersi la salvezza” (anche se pure Benjamin sbagliava quando pensava al capitalismo come religione per mero culto, “senza dogma” e senza teologi: i dogmi e i teologi esistono, eccome). Una autentica ‘pedagogia del dolore’ (come scrive Umberto Galimberti a proposito di cristianesimo), ma propria anche del capitalismo (“parassita del cristianesimo”, ancora secondo Benjamin).
Ed hanno ragione allora i radicali dello stampo di Tresca e di Costariodis, che commenterebbero l’oggi come una metamorfosi senza trasformazione dello stesso male: ieri (e per venti anni), la bio-politica accattivante dell’edonismo, del consumismo, dell’egoismo e dell’egotismo; oggi la tanato-politica della morte civile e sociale e dell’impoverimento di massa.
I grandi mass-media, Casini e Montezemolo, ci dicono che dobbiamo credere a Mario Monti, Mario Draghi, Manuel Barroso, Angela Merkel, sicché, facendoci muovere sul girello per bambini hanno realizzato per noi, perché loro sono coloro che sanno e ‘coloro che sono’ (noi siamo coloro che siamo perché siamo gli esperti, i professori, i tecnici), a noi non resta che accettare e fare ‘esercitazioni militari’ accettando l’ordine di diventare disoccupati o precari; pagare le tasse e impoverirsi, perché questo è utile non solo al pareggio di bilancio ma soprattutto alla nuova divisione internazionale del lavoro (non potendo più svalutare la lira per dare fiato a un’economia che non innova, oggi si devono ‘svalutare’ il lavoro e i redditi), perché il nostro benchmark (coloro che si deve imitare, diventando come loro) per i prossimi anni saranno i lavoratori-schiavi cinesi.
E conviene che anche il Pd si rilegga Tresca e tutta la letteratura politica che ne deriva, si rilegga il “sapere aude” di Kant e rivendichi non un accostamento al modello capitalistico corretto secondo la nuova finanza, ma l’autonomia dai mercati, dalle agenzie di rating, dall’ideologia neoliberista, dalla religione capitalistica, dalla paranoia del pareggio di bilancio, per uscire dalla ‘paura’ e dalla ‘viltà’ di un pensiero etero-nomo subordinato ai mercati e rivendichi il diritto e il dovere di pensare politicamente in modi diversi, altri, auto-nomi e soprattutto lungimiranti.
Carlo Di Stanislao
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