Da Italiani ed Italo-americani siamo chiamati a onorare la memoria dei 500 italiani di Monongah, martiri del lavoro, dell’emigrazione e della speranza in un mondo migliore. Il 6 dicembre 2009 ricorre il 102° anniversario del maggiore disastro minerario americano, il più grave in assoluto nella storia estrattiva, ricordato con il nome della località U.S.A. in cui esplosero contemporaneamente due pozzi carboniferi. Monongah era un centro minerario con circa 3mila abitanti e una numerosa colonia italiana. Il 5 dicembre 1907 le miniere nn. 6 e 8 erano rimaste chiuse, per via della festa “congiunta” (oggi diremmo, “ponte”) di San Nicola e Santa Barbara. La Fairmont Coal Company, sussidiaria della Consolidation Coal Company, per risparmiare non mantenne in funzione il sistema di aerazione. L’esplosione delle ore 10 e 30 del mattino, fu violentissima e avvertita a chilometri di distanza.
Il 19 dicembre 1907 un’altra deflagrazione porterà morte e lutto a Darr, in Pennsylvania. Anche qui numerose le vittime italiane, tra le circa 400 che si contarono. L’elenco delle tragedie minerarie americane di quel periodo, simile a un martirologio, è una lista atroce e infinita. Ricordiamo i 22 morti di Bluefield (4 gennaio 1906); i 18 morti di Detroit (18 gennaio 1906); i 22 della miniera Parral (8 febbraio 1906); i 28 di Fayetteville (25 marzo 1906); i 28 di Pocahontas (3 ottobre 1906); i 12 di Buckhannon (20.1.1907); gli 80 della miniera Sewart di Fayetteville (29.1.1907). E, per l’Europa, il migliaio di Courrières (Francia settentrionale) del marzo 1906. Secondo fonti attendibili, circa mille persone persero la vita nella sciagura di Monongah. Alle vittime ufficiali sono da aggiungere bambini, amici e aiutanti che ogni minatore «regolarmente assunto» portava con sé, senza l’obbligo di comunicarlo al datore di lavoro. Per via del cottimo e per un maggiore guadagno: in seguito si sarebbero divisi il salario. «Buddy system», lo chiamavano, il «sistema dell’amico o del compare»! A Monongah, cittadina del West Virginia, nel cuore minerario degli Stati Uniti, si consumò una tragedia che costò la vita a 361 minatori, 171 dei quali italiani. Stima per difetto, perché i morti furono più di 900, di cui 500 italiani perché neanche un terzo dei minatori era registrato; fra le vittime decine di molisani ed abruzzesi emigrati in cerca di fortuna in America. Alcuni di loro erano appena dei ragazzini. Una tragedia, per l’emigrazione italiana più grave di quella, ben più nota, di Marcinelle, in Belgio avvenuta l’8 agosto 1956, in cui le vittime furono 262, 136 delle quali italiane. I morti in quell’orribile deflagrazione sarebbero stati, secondo i resoconti giornalistici dell’epoca e le molteplici testimonianze che si sono avute, oltre 900.
Che cosa accadde a Monongah? Torniamo indietro nel tempo. Nel giorno di Babbo Natale (Santa Claus), il 6 Dicembre 1907 a Monongah, cittadina mineraria del West Virginia, sta per consumarsi una delle più gravi tragedie della storia americana. Alle 10 e 30 del mattino una violenta esplosione fa crollare le vene n° 6 e n° 8 della miniera più importante della contea. Un vero e proprio terremoto che scuote la terra per oltre 13 chilometri, spazza via case e strade, persone e animali. Sradica addirittura le rotaie della locale stazione ferroviaria. Laggiù nelle viscere della Terra, 478 minatori uomini e ragazzi , il viso annerito dal carbone, gli abiti dismessi, sono investiti in pieno dalla detonazione.
Un misto di polvere di carbone, e gas metano che trasforma in pochi secondi i due tunnel in una camera ardente. Muoiono in 361. Sono americani (85), polacchi e russi (103), ma sono sopratutto italiani. Centosettantuno. Una cifra spaventosa, che potrebbe addirittura salire fino a 500 italiani morti. Una corrispondenza da Washington del 9 marzo del 1908 (cioè dopo il completamento delle inchieste sulla tragedia del 6 dicembre 1907) sostiene che “il bilancio dello scoppio della miniera di Monongah avrebbe raggiunto un totale di 956 vittime, la maggioranza delle quali era italiana… ” Nella miniera Bois de Crazier , a Marcinelle morirono in 262 , quell’8 agosto del 1956 , 136 dei quali italiani. Monongah con i suoi morti rappresenta oggi l’icona del sacrificio dei nostri lavoratori costretti ad emigrare per poter sopravvivere. Il merito di aver riportato alla luce questa triste pagina di storia italiana è del settimanale La Gente d’Italia. Come documentarci? Con il volume “Monongah!” di Luigi Rossi, basato su diversi elementi archivistici tratti da carte e appunti di don Giuseppe d’Andrea, sacerdote scalabriniano (originario con il fratello di San Rocco di Premia) che all’epoca seguiva la colonia italiana di Monongah. L’opera gode dei patrocini della Regione Piemonte, della Provincia di Verbania e del Comune di Premia (con introduzioni del Presidente della provincia del Verbano – Cusio – Ossola e del Sindaco di Premia).
E’ un’opera singolare “Monongah!”, un volume che segue il cammino della speranza di alcune centinaia di emigranti dell’Italia centrale e meridionale, capitati sui monti Appalachi, regione ricca d’antracite e morte. A Monongah, il 6 dicembre 1907, esplosero due pozzi carboniferi…Segni caratteristici: titolo rosso sangue, un nome che ha in sé qualcosa di magico e maledetto, seguito da un punto esclamativo dello stesso colore. Sullo sfondo un mosaico di volti, gli occhi spalancati sulle occhiaie scure d’una miniera carbonifera esplosa, rozze bare, un cielo grigio, minatori che sembrano spettri. Volti e occhi di «gnomi» italiani del primo Novecento che si calavano nelle viscere del West Virginia e della Pennsylvania. In Illinois. Alabama, Colorado e Wyoming, Utah, Ohio e Kentucky. “Monongah!” è un volume che segue il cammino della speranza di alcune centinaia di emigranti dell’Italia centrale e meridionale, capitati sui monti Appalachi, terra ricca d’antracite e morte. Opera nata e sviluppatasi a partire dal 2003, prima come racconto pubblicato nel 2005, poi completata da elementi archivistici e storici che é fanno uno dei ritratti più veri e toccanti dell’Altra Italia, quella che, superato l’Atlantico, si lasciò dietro per sempre una Patria matrigna. Pochi sanno che quest’opera è nata dall’esemplare servizio del quotidiano Gente d’Italia di Miami che, nel 2003, denunciò la dismemoria di una delle maggiori tragedie della storia dell’emigrazione italiana.
Con le 362 vittime ufficiali, secondo il Monongah Mines Relief Committee, di nazionalità americana, tra le quali molte di colore, polacca, turca, slava o russa, ungherese, irlandese, lituana, scozzese, si rinvengono 171 italiani provenienti dal Molise, Puglia, Calabria, Abruzzo, Basilicata, Campania, Veneto. E un piemontese, originario di San Rocco di Premia: Vittore d’Andrea. I corpi ricuperati riposano sulla collinetta del «Calvario». Dimenticati per quasi un secolo, a Muh-nahn-guh, che nella lingua degli indiani Seneca significa «fiume dalle acque ondulate».
Degli attimi che seguirono quella tragedia restano moltissime fotografie, in bianconero o in un tenero seppia, scattate da fotografi che, immediatamente, le trasformarono in cartoline molto richieste che invasero l’America del disinganno. “Monongah!” segue la colonia di minatori italiani passo passo. Sull’Oceano, nelle gallerie e «al giorno», grazie a diversi documenti rintracciati dall’autore nel Center for Migration Studies di New York e riferibili alla mano e alla penna di don Giuseppe d’Andrea, il sacerdote scalabriniano che operò nel centro minerario appalachiano per una decina d’anni, fratello di Vittore d’Andrea. Il sindaco del comune di Premia, Elio Martinetti, scrive nella presentazione del volume: «Il centenario del dramma di Monongah ci offre il modo di ricordare questi nostri due concittadini, insieme alla comunità italiana e alle sue vittime. Senza dimenticare tutti coloro che, sul finire del 1800 e nei primi decenni del 1900, abbandonarono la Valle Antigorio per i Paesi transoceanici. Abbiamo scelto di ricordarli con un’opera di narrativa, basata su elementi storici, corredata da diverso materiale fotografico. Pagine che coinvolgeranno, non solo emotivamente, chi si avvicina a Monongah ricordando idealmente tanti nostri concittadini emigrati Oltreoceano». Luigi Rossi, grazie al genere «narrativa», ci permette di «vivere» a Monongah. Partecipare a momenti dedicati alla religione e all’organizzazione sindacale, all’apprendimento della lingua americana o alla nascita della banda musicale Giuseppe Verdi, perché su Monongah si sparsero musica e suoni prodotti da una banda musicale «tutta italiana». Ai dolori e gioie di questa comunità, come alle speranze e illusioni. Tra le pagine si rinvengono personaggi come Carlo (Tresca), Arturo (Giovannitti), Joe (Hill) o Mother Jones. O rimandi a quegli italo-americani che credevano nei movimenti sindacali, nell’unione e nella riscossa sociale. Accenni a un’Italia che prende coscienza di sé al di là dell’Oceano: incontri, giornali, scioperi. Come quello di Lawrence (1912) o a Ludlow (1914), dove i miliziani spararono sugli scioperanti, uccidendo anche donne e bambini. Un movimento che ci donerà figure come Sacco e Vanzetti e che è alle radici dell’America dei diritti e dell’uguaglianza, del pacifismo e della libertà. La nascita e lo sviluppo dell‘associazionismo, la crescita del sindacalismo, le lotte politiche a difesa dei propri diritti e che abbracciano l‘orario di lavoro, l‘igiene, il vitto, il pacifismo e l‘opposizione a quel capitalismo che si sta avviando alla catastrofe della prima guerra mondiale. Nell’epilogo di “Monongah!” il giovane narratore, originario di San Giovanni in Fiore, rimanda a chi colse la tragedia dell’emigrazione come un momento di riscatto e rinascita. Dove la «nuova lingua» è la chiave per una «nuova vita» in un «Nuovo Mondo».
«I am an American», dice. È soprattutto il dolore a crescerti come cittadino. Proprio come successe a Pascal d’Angelo. “Monongah!” si può considerare il completamento d’una trilogia che vede l’emigrazione dal Piemonte orientale riversarsi in Europa e nelle Americhe. In questo suo ultimo lavoro, patrocinato dal Consiglio regionale del Piemonte, dalla Provincia del Verbano – Cusio – Ossola e dal Comune di Premia, l’emigrazione proveniente dall’Italia settentrionale si amalgama Oltreoceano con quella dell’Italia meridionale, quasi a formare – al di fuori dei confini nazionali – un’altra Nazione. Tra 1901 e 1915, 27 milioni di italiani emigrarono e ben 3 milioni e mezzo si diressero verso l’America del Nord, provenienti non solo dalle regioni dell’Italia meridionale e centrale, ma anche dal Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli. Un’Italia disperata e «stracciona» che, per quasi un secolo, mantenne in vita con le sue «rimesse» la dissestata economia del Paese d’origine. La trilogia dell’autore d’origine veneta, che vive e lavora a Bochum (Vestfalia), ricorda la ricchezza storica, umana e culturale dell’Altra Italia. Una ricchezza che si dipana lungo i secoli e i millenni, dimenticata in Patria e raramente ripresa e riproposta. Un’Altra Italia ancora mancante d’un archivio centrale, d’un museo nazionale, di corsi universitari che la ricolleghino alla storia del Paese d’origine. Di iniziative dedicate a un fenomeno sociologico, culturale ed economico cui i libri di storia dedicano una o due paginette.
Luigi Rossi ricorda che «Le vittime di Monongah appartengono alla generazione dei dago, guinea, wop, chianti che generò, allattò e crebbe personaggi come Pietro Di Donato, Pascal D’Angelo e John Fante. E chi, con un cognome italico simile a un marchio, si troverà a vivere e operare in letteratura, cinema, teatro, imprenditoria, politica, altiforni, tratte ferroviarie, cantieri edili. Vivendo con dignità e orgoglio in quel Nuovo Mondo che sostituiva per sempre una Patria matrigna». Della nostra epopea di emigranti non sappiamo molto. Dei successi e dei drammi che l’hanno costellata sappiamo poco, e quel poco è spesso affogato nella retorica patriottarda del bravo italiano che sgobba e si fa voler bene da tutti. Non sempre – anzi quasi mai – è stato così. La storia dell’emigrazione italiana è piuttosto intrisa di dolore. Monongah è un dramma seguito qualche anno dopo, nel 1914, dal massacro di Ludlow, in Colorado… Due tragedie, ma é potremmo citare altre cento. Ricordare, confrontarci con la nostra storia di popolo costretto a cercare fortuna all’estero, è utile per guardarci con un occhio diverso. E guardare con un pizzico di compassione in più la sofferenza di chi oggi bussa ai nostri confini per cercare un avvenire migliore. Che la lettura di questo libro sia il primo passo nell’approfondimento del fenomeno migrazione: è l’augurio che faccio a tutti coloro che si apprestano a leggere queste pagine, che rendono onore a quei nostri nonni dimenticati in terra americana e nel fondo della nostra memoria collettiva.
Nicola Facciolini
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