L’amore incondizionato di una donna verso il marito affetto, negli ultimi anni della sua vita, da una malattia lenta e degenerativa, l’Alzheimer. Si intitola “Mirella” il reportage realizzato da Fausto Podavini, fotografo romano, che venerdì scorso si è aggiudicato il premio più prestigioso: il World press photo nella categoria “Daily life stories”. Il lavoro, durato quattro anni, è un racconto delicato e mai scioccante, della quotidianità di questa coppia: Mirella, e Luigi, da 43 anni insieme. Costretti a lottare, negli ultimi sei, contro una malattia che offusca i ricordi, trasforma le persone e cambia la vita di tutti coloro che ne sono coinvolti. A partire proprio da chi è più vicino e si dedica con dedizione a prendersi cura del malato.
“Il lavoro è nato in maniera spontanea, senza un a vera progettualità. Faccio reportage sociali, quindi vado sempre alla ricerca di storie un po’ nascoste – racconta l’autore – Quando sono entrato in contatto con questa coppia, quindi, non ho capito subito quali potessero essere le potenzialità del racconto. Poi una cosa mi è balzata agli occhi: l’amore spropositato di questa donna verso il marito. Ho capito che doveva essere quella, e non la malattia, la chiave lettura”.
Negli scatti di Podavini non c’è un dolore ricercato né la sottolineatura di una grande sofferenza, ma il racconto dei piccoli gesti d’amore che chi assiste un malato compie giorno dopo giorno: dalla somministrazione delle medicine alla doccia del mattino fino al bacio della buonanotte. “Non fotografare l’Alzheimer è stata una scelta, perché si tratta di una malattia che non tocca solo la persona affetta da demenza ma coinvolge tutte le persone più care e più strette. Volevo cercare di raccontare un soggetto sotto questo aspetto: Mirella appunto”. Il reportage segue l’evolversi della malattia fino alla morte di Luigi. “La lunghezza del lavoro è venuta un po’ naturale, non è facile realizzare un lavoro all’interno di un appartamento con gli stessi personaggi. Volevo anche arrivare alla fine naturale della storia – aggiunge Podavini – perché questo è un tipo di lavoro che non si poteva fermare prima. Se avessi voluto raccontare solo la malattia avrei fatto probabilmente un lavoro più breve, di una settimana dieci giorni”. (ec)
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