Lolito

Anche se Sallusti, sempre più simile al Nosferatu di Murnau e Werner Herzog, si affanna a dire che ha perso spirito e mordente ed è solo scatologico e volgare, Daniele Luttazzi resta un maestro della satira ed uno che sa davvero scrivere e scrivere bene. Ne è prova “Lolito. Una parodia” in edicola con il […]

Anche se Sallusti, sempre più simile al Nosferatu di Murnau e Werner Herzog, si affanna a dire che ha perso spirito e mordente ed è solo scatologico e volgare, Daniele Luttazzi resta un maestro della satira ed uno che sa davvero scrivere e scrivere bene.
Ne è prova “Lolito. Una parodia” in edicola con il Fatto Quotidiano a partire da venerdì 22 febbraio a 8,80 € più il prezzo del giornale (1,20, così viene per un totale tondo di 10 euro), scritto dopo “La guerra civile fredda” del 2009 e la “Quarta necessità” del 2011, un fumetto realizzato con i disegni di Massimo Giacon, intervallati, nel 2010, da l’ “Almannacco illustrato della nuova satira italiana 2010″, una selezione di battute di autori esordienti che Luttazzi ha messo insieme dopo l’esperienza della “Palestra: satira ospitata sul suo sito, ora chiuso.
Il protagonista del libro è lui, il “Lolito” Berlusconi, con una carriera da cabarettista e viveur anche nella politica, un terrore nascosto dalla bonomia, una catena di eventi disastrosi per il Paese, nascosti dietro battute e sorrisi.
Secondo Andrea Scanzi de il Fatto Quotidiano, Luttazzi è stato e resta un maestro (come Monicelli e come Gillo Dorfles) della ribellione fatta con talento, capace di scudisciare il perbenismo e di sparigliare le coscienze, senza mai essere neanche un poco intaccato dal diffuso buonismo nazionale.
Dopo anni di clandestinità teatrale, imposti dall’ukase bulgaro, tornò in tivù – era il 25 marzo 2010 – da una strada apparentemente laterale. Successo autentico, capolavoro di satira (quella vera). Luttazzi, nella ferocia, ci ha sempre sguazzato. Genio schizoide, trasversale, polivalente. Colto, esigente, contorto. Sensibile. La musica, la comicità, la saggistica (le critiche a Beppe Grillo restano argutissime). Talento col culto dell’ultima parola, sessuologo con la fregola di dimostrare di averlo sempre più lungo degli altri: “Io sono più satirico, io sono più intelligente, io sono più bravo”. In tanti lo aspettavano e lo aspettano al varco, perché lui è cattivo per scelta, non per posa ma per onestà intellettuale., spietato, anzitutto con i colleghi, chi terzista e chi dichiaratamente furbo e colluso.
In un mondo di epurati immaginari, lui era (ed è) il censurato vero, da Mediaset, dalla Rai, da La7, sicché ogni suo tonfo ha reso felice quasi tutti, la destra, la sinistra, più ancora il centro (in cui militava quando era un giovane romagnolo con velleità politiche democristiane).
Sicché è strano che a Marco Travaglio Lilli Gruber abbia consentito di parlare del suo libro, fra le ire di Sallusti in collegamento dal suo “Giornale”, mentre si commenta il successo oceanico di Grillo nella piazza di Milano.
Forse ora che l’emittente ex Tim se l’è beccata Cairo (probabile testa di ponte del Cavaliere), neanche queste sortiti saranno possibili.
Nel paese in cui i colpevoli incalliti vengono reinseriti e anzi premiati, Luttazzi è stato condannato a morte con l’accusa di plagio, da un giorno all’altro, a parte un libro a fumetti (recensito dal Fatto Quotidiano e pochi altri), è scomparso. Cancellato dal palinsesto intellettuale del paese del buonsenso apparente.
La querelle-plagio è scattata con precisione chirurgica. Poco dopo la rinascita a Raiperunanotte. Forse orchestrata da rivali, da addetti ai lavori pronti con il colpo in canna, giubilanti all’idea di infierire sulle ferite di un competitor più libero: più bravo, più insopportabile. “Luttazzi copia”: garantivano i filmati su Youtube.
Luttazzi ha provato a difendersi (come ora fa Giannino, arrancando sul senso del suo master fantasma a Chigaco), riconoscendo che, sin dai primi anni di carriera, nei mesi di vacanza a New York si nutriva un po’ troppo disinvoltamente dei satirici americani. Ma non è bastato e allora, per un anno e mezzo ha taciuto.
L’uomo che ironizzava sulle scopiazzature di Bonolis, che infieriva sui comici che sbirciavano dal suo repertorio, a sua volta saccheggiava. E allora condanna assoluta e definitiva: blog chiuso e filmati oscurati.
Mentre l’Italia agonizza, mentre il suo rivale Grillo (a cui somiglia più di quanto crede) conquista sindaci e scranni in Parlamento, mentre un Berlusconi sinapticamente devastato intorta un’altra volta l’Italia, mentre Corrado Guzzanti, il più grande satirico italiano in attività, viene attaccato per la tendenza (sacrilega) a ironizzare sul clero, guarda caso uno dei motivi della cacciata di Luttazzi da La7 (la puntata mai andata in onda di Decameron avrebbe demolito l’enciclica Spe Salvi di Papa Ratzinger), lui, Luttazzi Daniele, è l’unico che non può e non deve essere perdonato.
Consegnò per tempo ma si rifiutò di discutere la sua tesi di laurea in Medicina e poi, conseguita la stessa, non si iscrisse all’ordine dei medici né praticò mai la professione. Trascorse invece due anni in un laboratorio di ricerca e, nell’attesa dell’uscita del bando di concorso per immunologi, partecipò a un altro concorso, di tutt’altro genere: uno per comici e lo vinse. Renzo Arbore, che faceva parte della giuria, lo fece subito esordire in un programma televisivo su Rai 2.
L’ho visto recitare al S. Filippo, a L’Aquila, all’inizio degli anni novanta, ed entusiasmo mio figlio che allora aveva solo 11 anni.
Era il 1994 ed era uscito in libreria un romanzo destinato a diventare un best seller. La sua autrice era Susanna Tamaro e il titolo “Va’ dove ti porta il cuore”. Un vero successo di critica e di lettori: un libro che venderà 14 milioni di copie in tutto il mondo. Nel 1996, Cristina Comencini ne ricaverà una sceneggiatura e ci farà un film, anche questo di successo. Luttazzi, invece, ne ricava una parodia, e la intitola: “Va’ dove ti porta il clito”.
La Tamaro sobbalza e insieme alla casa editrice Baldini e Castoldi, trascina il comico in tribunale accusandolo di plagio. Luttazzi vince la causa, la Tamaro fa ricorso e Luttazzi vince di nuovo.
Con le apparizioni nella trasmissione Mai dire gol, il volto di Luttazzi diviene noto al grande pubblico. Siamo nella metà degli anni novanta e uno dei suoi personaggi di maggior successo è Dervis Fontecedro, docente dell’università di Palo Alto, California, il quale attacca con travolgente comicità la scuola italiana e la riforma attuata da Luigi Berlinguer, allora ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Prodi.
Mediaset propone a Luttazzi un programma tutto suo: Barracuda. Ma il programma subisce delle censure e il suo conduttore, intollerante alle censure, smonta “baracca e burattini” e trasferisce tutto in Rai.
Il picco di successo e di popolarità Luttazzi lo raggiunge però con Satyricon. È il 2001, al governo c’è Silvio Berlusconi, un governo saldo, destinato sostanzialmente a portare a termine la sua legislatura. Durante la dodicesima puntata del suo Satyricon, Luttazzi ospita un giornalista della scuola di Indro Montanelli, Marco Travaglio, il quale ha appena scritto un libro, assieme a Elio Veltri, intitolato “L’odore dei soldi”, dove si parla, per l’appunto, di Berlusconi. Esponenti politici vicini al Presidente del Consiglio, urlano alla diffamazione, accusano sia Luttazzi sia Travaglio di disinformazione e tutto sfocia in una querela. Il processo che ne consegue, termina nel 2005 con l’assoluzione di Travaglio, di Luttazzi e degli editori e l’obbligo di pagamento delle spese processuali da parte di Silvio Berlusconi.
Intanto però, nel 2002, in aprile, durante una conferenza stampa in occasione di una visita a Sofia, Bulgaria, Silvio Berlusconi fa una dichiarazione: “Biagi, Santoro e quell’altro, come si chiama quell’altro…? Luttazzi. Fanno un uso criminoso della tv di stato”, dice,“e mi auguro che ciò non accada mai più”.
Detto, fatto. L’anno successivo, i programmi di Biagi e Santoro vengono cancellati dai palinsesti della Rai, e con essi anche il Satyricondi Luttazzi.
Luttazzi però non si perde d’animo e negli anni lontano dagli schermi fa un’infinità di lavori: scrive libri, compone canzoni, pubblica album musicali, collabora con MicroMegae e, soprattutto, i suoi spettacoli riempiono i teatri.
Nel 2006, l’emittente televisiva Sky gli propone una trasmissione, potrebbe essere la fine del suo embargo dal piccolo schermo. Luttazzi presenta il progetto per la realizzazione di un telegiornale satirico. Quando gli viene chiesto che reazioni avrebbe se gli tagliassero delle battute in fase di montaggio, lui risponde che ciò non potrà accadere perché il contratto non permetterà di censurare nessuno. E Sky si defila.
Luttazzi continua, tenace, la sua strada di girovago in salita ed approva su internet, fino a quando, era il 2010, dà notizia di un video che circola nel web, dove, per quaranta minuti, si alternano gag di George Carlin, di Bill Hicks e altri alle gag di Luttazzi. Le gag sono praticamente identiche. Luttazzi, e questo è evidente dalle immagini, non fa altro che modificare, correggere alcuni particolari in modo da renderli più adatti al pubblico italiano.
Nessuno naturalmente si chiede il perché una persona corretta ed intelligente come Luttazzi abbia fatto questo. In suo aiuto hanno scritto, subito Aldo Grasso e Roberto Faenza, i Wu Ming e si è scomodato anche Roberto Benigni. Luttazzi copia? Beh, che cosa c’è di strano, copiano tutti, dicono. Si è sempre copiato, da che mondo è mondo. Il grande Shakespeare?, ha copiato; Alighieri, Dante Alighieri?, ha copiato anche lui, dice Benigni.
Lui invece, Daniele, saggio come il profeta di cui porta il nome, si limita a rimuovere tutti i video che lo accusano, le immagini che tentano di documentare i suoi presunti plagi, e poi, dal suo sito internet, prima di oscurarlo, fa sapere che delle battute copiate non ha mai fatto segreto.
Erano sotto gli occhi di tutti, tanto che lui stesso ha indetto una sorta di “caccia al tesoro” con cui invitava i suoi fan a individuarle. Motivo della “caccia al tesoro”: difendersi dalle accuse di non fare satira.
In pratica: Luttazzi infila, nasconde nel suo repertorio satira non sua di modo che, nel caso in cui a qualcuno gli pigliasse di trascinarlo in tribunale accusandolo di offese o insulti, lui mostra la fonte delle battute e i giudici si convincono che effettivamente non si tratta di offese ma di satira.
Troppo acuto e geniale, per tutti. Il grande Lenny Bruce fece qualcosa di simile ma, naturalmente, no fu capito.
Un’ultima nota. Si sa che Luttazzi ama Kurt Vonnegut, Thomas Pynchon, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Manganelli, Aldo Buzzi e Ennio Flaiano, ma soprattutto Nabokov e non solo per Lolita, ma per Il dono, che lui considera: “il più bel romanzo de novecento”e che, non a caso, è innanzitutto un romanzo con la peculiarità di comprendere in sé una pluralità di romanzi inscatolati e rispecchiati l’uno nell’altro, sino al felice artificio di far sboccare la narrazione sulla scrittura di un libro.
Ho detto che fra gli autori cari al nostro c’è quell’Aldo Buzzi che, morto a 99 anni nel 2009, architetto di mestiere e autore per diletto, per tutta la vita è vissuto “uno che continua a leggere imparando”, con una meraviglia di fanciullo che sogna ad occhi aperti, ma nel contempo ha certezze ineludibili, come vuole la logica.
La saggezza di Buzzi sta nella considerazione bonaria delle cose e in una sorta di rassegnazione alle storture. La satira di Luzzati nel tentar di raddrizzarle quelle storture.
In questo suo ultimo libro, al di la delle tematiche trattate, sullo sfondo si percepisce la scrittura di un grande autore, una scrittura raffinata, ricercata, seducente, mai scontata, ricca di colpi di scena, dove si percepisce, pur in presenza di una trama scottante e scabrosa, la totale assenza di elementi volgari e/o offensivi, ma l’uso di una scrittura nobile che si pone con l’onesta posizione di un narratore satirico, sensibile ed elegante.
Secondo eminenti studiosi della scrittura (primo tra tutti, Umberto Eco) le parodie letterarie sono non soltanto divertimento intellettuale, ma esercizio di esplorazione e forma di conoscenza e questo “Lolito. Una parodia”, ne è esempio destinato ad essere illustre.

Carlo Di Stanislao

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