“La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo”(Marco 12,10). Nel grembo della giovane stella madre HD100546 gli astronomi europei dell’Osservatorio australe Eso in Cile, grazie al Very Large Telescope, hanno ottenuto quella che potrebbe essere definita la prima osservazione diretta di un esopianeta alieno gigante in formazione ancora inglobato nello spesso disco di gas e polveri del suo sistema solare. Se confermata, la scoperta dell’Eso offrirà uno straordinario contributo alla comprensione delle modalità di formazione dei pianeti negli altri sistemi solari, consentendo agli astronomi di provare nel crogiuolo dell’Universo reale le loro attuali teorie sulla nascita degli esomondi. Il team internazionale di ricerca guidato da Sascha Quanz (ETH Zurich, Switzerland) ha studiato il disco di gas e polveri che circonda HD100546, una stella adolescente relativamente vicina alla Terra e distante appena 335 anni luce dal nostro Sistema Solare. Grande è stata la sorpresa quando gli scienziati dell’Eso hanno trovato all’interno del sistema protoplanetario un mondo alieno ancora immerso nei gas e nelle polveri stellari. L’esopianeta è un gigante gassoso simile al nostro magnifico Giove. “Finora la formazione dei pianeti è stata in gran parte oggetto delle argomentazioni teoriche più accese sulla base di simulazioni al computer – rivela Sascha Quanz – per cui se la nostra scoperta del protopianeta alieno verrà confermata, allora per la prima volta gli scienziati potranno studiare direttamente i processi di formazione degli esopianeti e l’interazione con il loro sistema solare, empiricamente, in una fase molto precoce dello sviluppo del disco protoplanetario”. Ficcanasare nel giovane grembo stellare, all’Eso conviene. L’astro HD100546 è un oggetto ben conosciuto. Le analisi suggerivano la presenza di un pianeta in orbita, circa sei volte più lontano dalla sua stella di quanto lo sia la Terra dal nostro Sole (6 Unità Astronomiche). Ma l’esopianeta candidato appena scoperto sembra orbitare nelle regioni più esterne del sistema solare alieno, circa settanta volte più lontano dalla sua stella (70 Unità Astronomiche). Una distanza comparabile con le dimensioni orbitali dei pianeti nani del nostro Sistema Solare, come Eris e Makemake. La scoperta degli astronomi dell’Eso appare, quindi, alquanto controversa poiché a queste distanze, secondo i modelli più accreditati, non dovrebbero esistere pianeti giganti. Non è chiaro, allo stato attuale delle conoscenze, se il nuovo esopianeta candidato abbia occupato la sua attuale posizione orbitale per tutto il tempo fin dalla sua nascita o se vi possa essere migrato in un secondo tempo, dalle regioni più interne del sistema protoplanetario. L’esomondo alieno attorno all’astro HD100546 è stato osservato come un debole inviluppo luminoso localizzato nel disco circumstellare grazie all’ottica adattiva del sensore NACO accoppiato al Very Large Telescope dell’Eso, integrando i dati grazie a pioneristiche tecniche di analisi. Le osservazioni dirette, che si aggiungono a quelle effettuate su altri sistemi solari nella nostra Galassia, come Beta Pictoris e Fomalhaut, si sono avvalse dell’uso di uno speciale coronografo in grado di creare una vera eclisse sul sole alieno, operando in luce infrarossa per sottrarre così la brillante luce stellare, incrementando il contrasto e svelando l’oggetto protoplanetario ospite. Secondo l’attuale teoria, i pianeti giganti si formano grazie alla cattura di gas e polveri sopravvissuti ai forti venti stellari generati nelle primissime fasi di formazione stellare. I più alti “resti” formano oggetti come i nostri Giove, Saturno, Urano e Nettuno, insieme a miliardi di asteroidi e comete. Per svelare i segreti della formazione planetaria, gli astronomi non possono guardare solo il nostro Sistema Solare, poiché tutti i pianeti a noi più vicini si sono formati oltre quattro miliardi di anni fa. Per diversi anni le teorie sulla formazione dei pianeti sono state fortemente influenzate da ciò che gli astronomi potevano osservare nella nostra più immediata periferia cosmica locale. Fino al 1992 nessun altro pianeta era noto oltre l’orbita di Plutone. Il 5 Ottobre 1995, Michel Mayor e Didier Queloz, dell’Osservatorio di Ginevra, annunciarono di avere scoperto il primo pianeta extrasolare nella storia, di massa paragonabile a quella di Giove, attorno alla stella 51 Pegasi. Da allora sono stati stanati almeno 3.649 esomondi alieni (http://planetquest.jpl.nasa.gov/) gassosi e rocciosi, moltissimi delle dimensioni della nostra Terra. Sembrano non far più notizia. Eppure ciascuno di loro è diverso e speciale, perché in grado di aprire agli scienziati nuove opportunità di studio. Finora nessuno degli esopianeti scoperti era stato osservato direttamente proprio nell’atto della sua formazione. Gli astronomi hanno acquisito nuove immagini del disco protoplanetario attorno all’astro HD100546, che avvalorano le ipotesi formulate. Le strutture nel disco di polveri circumstellari, che potrebbero essere il prodotto dell’interazione con l’esomondo alieno, sono state trovate in prossimità del protopianeta, i cui gas sembrano riscaldati proprio dal processo di formazione. La ricerca dell’Eso è stata presentata nell’articolo “A Young Protoplanet Candidate Embedded in the Circumstellar disc of HD 100546”, di S.P. Quanz ed altri, pubblicato “online” il 28 Febbraio 2013 sul numero di Astrophysical Journal Letters. “La ricerca degli esopianeti è una delle più eccitanti frontiere nell’Astronomia – dichiara un’entusiasta Adam Amara del team di ricerca di Sascha P. Quanz (ETH Zurich, Switzerland), Michael R. Meyer (ETH), Matthew A. Kenworthy (Sterrewacht Leiden, Netherlands), Markus Kasper (ESO, Garching, Germany) e Julien H. Girard (ESO, Santiago, Chile) – se le osservazioni dirette degli esopianeti alieni sono ancora pioneristiche, siamo infatti appena agli inizi di un nuovo affascinante capitolo della Scienza, queste ricerche beneficiano già dei recenti progressi nei metodi strumentali e di analisi dei dati. In questo specifico studio abbiamo utilizzato le tecniche sviluppate per la ricerca cosmologica, a dimostrazione del fatto che dalla reciproca influenza di fertili idee e progetti in diversi campi di indagine possono giungere progressi straordinari”. Sebbene le osservazioni siano coerenti con la presenza dell’esomondo alieno, i risultati dello studio richiedono ulteriori verifiche sperimentali per confermarne l’esistenza, scartando tutti gli altri scenari plausibili. Tra cui, non ultima, la possibile rilevazione perfettamente sovrapponibile di un segnale da una sorgente molto più lontana del sistema solare alieno. L’oggetto potrebbe anche non essere un protopianeta bensì un esopianeta gigante già adulto magari espulso dalla sua primitiva orbita molto più vicina alla stella madre HD100546. Se ne sarà verificata l’esistenza come le ipotesi degli scienziati dell’Eso sembrano suggerire, diventerà un laboratorio più unico che raro per studiare direttamente il processo di formazione dei nuovi sistemi planetari alieni. Tra le centinaia di pianeti extrasolari scoperti negli ultimi due decenni dagli astronomi, molti hanno un nucleo roccioso ma sono molto più grandi della Terra. Per questo vengono chiamati “super-Terre” perché strutturalmente simili al nostro pianeta ma molto più grandi e molto più densi. Un nuovo studio suggerisce che il quadro sia quindi molto più complesso: questi pianeti sarebbero avvolti da uno spesso strato ricco di idrogeno, il che li renderebbe molto diversi dal nostro. Molto più velenosi, irrespirabili e ostili dei nostri standard vitali. Secondo uno studio condotto da Helmut Lammer dell’Istituto di ricerca spaziale dell’Accademia austriaca delle scienze, questi mondi potrebbero essere molto più simili a dei “mini-Nettuni”. Una super-Terra, la cui atmosfera sia composta da metano, acqua e idrogeno, e quindi ammoniaca, sarebbe del tutto alieno. Ma potrebbe essere un’immensa riserva di preziosi minerali. Anche di prodotti per le pulizie domestiche di Pasqua. Questi pianeti seguono una diversa evoluzione rispetto a quelli del nostro Sistema solare. Potranno mai evolversi in pianeti rocciosi come i nostri Mercurio, Venere, Terra e Marte? Per rispondere, il team di Lammer si è focalizzato sull’impatto delle radiazioni nello strato superiore dell’atmosfera dei pianeti orbitanti attorno alle stelle Kepler-11, Gliese 1214 e 55 Cancri. Gli esomondi studiati da Lammer sono tutti di qualche ordine di grandezza più massicci della Terra, leggermente più grandi, orbitano tutti relativamente vicino alle loro stelle madri. Il rapporto tra massa e dimensioni suggerisce che queste super-Terre hanno nuclei solidi circondati da atmosfere ricche di idrogeno, probabilmente catturato dalle nubi di gas e polvere da cui i pianeti si sono formati. Il modello presentato da Lammer nel suo studio pubblicato su “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society”, suggerisce che la luce ultravioletta estrema delle stelle madri riscaldi gli involucri gassosi di questi mondi, portandoli a espandersi fino a diverse volte il raggio del pianeta. Se i risultati delle ricerche dovessero essere confermati, le super Terra più lontane dalle loro stelle madri, dove la temperatura permette l’esistenza di acqua allo stato liquido, manterrebbero più facilmente le loro atmosfere ricche di idrogeno. E avrebbero molte meno probabilità di essere abitabili da esseri umani. Il posto migliore dove cercare pianeti abitabili potrebbe essere attorno alle stelle morenti, le nane bianche, secondo Avi Loeb del Centro di Astrofisica alla Harvard-Smithsonian, che ha presentato un modello teorico sui pianeti rocciosi simili alla Terra orbitanti attorno alle nane bianche. Sarebbe molto più facile localizzare ossigeno attorno a questo tipo di pianeti piuttosto che nell’atmosfera di esomondi alieni che orbitano attorno a stelle simili al Sole. Quando gli astri di tipo solare che presentano caratteristiche simili alla nostra stella madre, concludono il loro ciclo di vita, si liberano degli strati esterni, lasciando scoperto un nucleo caldo: la nana bianca. Frutto della fase terminale di una stella che si raffredda e si spegne. Potrebbe trattenere ancora calore sufficiente a riscaldare i pianeti superstiti per miliardi di anni? Sappiamo che prima, una stella come il nostro Sole deve passare per la fase di “gigante rossa” che distrugge e ingloba tutto ciò che incontra, compresi i pianeti vicini. Per questo motivo un esomondo in orbita attorno a una nana bianca dovrebbe esservi arrivato solo una volta conclusa la fase di gigante rossa. Questo è possibile secondo i ricercatori: potrebbe formarsi dai detriti e dai gas rimasti dopo l’esplosione (un “pianeta di seconda generazione”) o migrare verso la nana bianca da un altro sistema. Dovrebbe orbitare a una distanza molto ravvicinata alla stella, proprio perché le nane bianche sono molto più piccole e deboli del Sole. Un pianeta papabile alla vita dovrebbe concludere la sua orbita ogni 10 ore a una distanza di circa 1600 chilometri. Gli astronomi stanno scandagliando i cieli, setacciando 500 nane bianche nella speranza di trovare almeno qualche pianeta roccioso. Grazie al metodo del transito, cioè del passaggio di un esopianeta di fronte alla stella madre, è possibile rilevare la diminuzione di luminosità della curva di luce dell’astro che avvolge l’esomondo. La spettroscopia esoplanetaria dell’Eso è all’avanguardia nel mondo. Se nell’atmosfera dei pianeti e delle lune aliene ci sono le impronte della vita, segni che evidenziano la presenza di vapore acqueo e ossigeno, notoriamente essenziali alla vita, solo allora avremo la prova-regina che cerchiamo. Viste le piccole dimensioni delle nane bianche, un pianeta che passasse davanti a una di esse bloccherebbe una grande parte della sua luce, e sarebbe quindi particolarmente facile da studiare. Entro il 2018 dovrebbe essere lanciato in orbita il Telescopio Spaziale James Webb (JWST) delle Agenzie Nasa, Esa e Csa, il successore dell’Hubble Space Telescope nel campo dell’osservazione infrarossa. Il JWST offrirà gli strumenti per trovare e studiare questi pianeti nel futuro, secondo Loeb e Dan Maoz della Tel Aviv University. Questo telescopio potrebbe, infatti, trovare esomondi anche attorno alle nane rosse, stelle ancora più piccole e fredde del Sole, ma di gran lunga più luminose, secondo lo studio pubblicato su “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society”. Nel Cosmo di acqua ce n’è un’infinità. Un gigantesco Serbatoio universale di questo prezioso composto chimico fondamentale per la Vita sviluppata sul nostro Pianeta, è stato scoperto sotto forma di vapore e ghiaccio attorno a DG Tau, una giovane stella situata in direzione della costellazione del Toro e distante circa 450 anni luce dalla Terra. Ce ne sarebbe qualcosa come migliaia di volte quella contenuta nei nostri oceani. La scoperta è stata realizzata da un gruppo internazionale di scienziati guidati da Linda Podio dell’Università di Grenoble, associata all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), a cui partecipano Claudio Codella dell’Inaf-Osservatorio Astrofisico di Arcetri e Brunella Nisini dell’Inaf-Osservatorio Astronomico di Roma, sfruttando le osservazioni condotte dal telescopio spaziale Herschel dell’Esa. DG Tau ha pochi milioni di anni. Tra alcuni miliardi di anni potrebbe diventare come il Sole e dal suo disco circumstellare si potrebbero formare pianeti, asteroidi e comete come nel nostro Sistema solare. La caccia all’acqua cosmica, in questo ed altri sistemi simili, è assai importante perché la presenza di questo liquido può essere un indizio di condizioni favorevoli allo sviluppo della vita. Gli scienziati ritengono che la maggior parte dell’acqua in queste strutture si trovi nelle regioni più esterne del disco solare alieno, dove le temperature sono molto basse, ben al di sotto dei meno 100 gradi centigradi. “In queste condizioni, l’acqua si congela sulla superficie dei grani di polvere del disco, ricoprendoli con spessi mantelli di ghiaccio e rendendola così ‘invisibile’ alle osservazioni” – spiega Linda Podio – tuttavia la radiazione molto energetica emessa dalla stella illumina e riscalda gli strati più superficiali del disco, così che i mantelli di ghiaccio sui grani di polvere possono sciogliersi rilasciando parte dell’acqua in fase gassosa”. Sotto forma di vapore, le principali righe di emissione della preziosa molecola sono visibili a lunghezze d’onda del lontano infrarosso, non osservabili da Terra a causa dell’assorbimento atmosferico ma accessibili agli strumenti a bordo dell’osservatorio Herschel. Il disco protoplanetario di DG Tau è stato passato al setaccio dallo spettrometro HIFI (Heterodyne Instrument for the Far-Infrared) di Herschel e l’analisi dei risultati è stata inequivocabile. “Ora possiamo dire con certezza che i nostri sospetti erano giusti. Siamo riusciti infatti ad osservare il vapor d’acqua nel disco di DG Tau – rivela Linda Podio – l’analisi dei dati ci ha permesso di ricavare da quale regione del disco l’acqua viene emessa e derivarne l’abbondanza: la quantità di vapor d’acqua osservato equivale a centinaia o migliaia di oceani terrestri”. I ricercatori sono riusciti anche a localizzare la posizione di quest’enorme Serbatoio cosmico d’acqua che si trova in una fascia compresa tra 10 e 100 Unità Astronomiche dalla stella. Poiché l’acqua in forma di vapore è solo una piccola parte del totale, gli scienziati ne deducono che la quantità d’acqua intrappolata nei mantelli dei grani di polvere sotto forma di ghiaccio sia assai maggiore. “Questa scoperta ha delle implicazioni fondamentali per gli astronomi e i geologi che studiano l’origine del nostro Sistema Solare, e in particolare l’origine dell’acqua sulla Terra – spiega Linda Podio – infatti l’ipotesi più accreditata è che il nostro pianeta fosse completamente ‘asciutto’ al momento della sua formazione e che l’acqua vi sia giunta circa 4 miliardi di anni fa, grazie agli impatti di asteroidi e comete che si sarebbero formati nelle regioni esterne del nostro disco per poi schiantarsi sulla Terra durante la fase che prende il nome di ‘intenso bombardamento tardivo’. La quantità di acqua che abbiamo osservato nel disco di DG Tau, una stella simile al nostro Sole, supporta decisamente questo scenario”. Le Terre aliene “normali” sono molto più abbondanti di quanto si creda e si osservi nella nostra Galassia ed altrove. Se i conti sono corretti, dovrebbero essercene 4 o 5 miliardi solo nella nostra Via Lattea. Più o meno una per ogni essere umano oggi sulla Terra. Sono le eso-Terre potenzialmente abitabili appena scoperte da Courtney Dressing e colleghi attorno alle nane rosse, astri tutt’altro che banali che potrebbero ospitare civiltà extraterrestri molto antiche. Benché ammirando il cielo notturno nessuno ne abbia mai vista una, per lo meno non a occhio nudo, su quattro stelle che si osservano tra quelle a noi più prossime, tre appartengono alla classe delle nane rosse. Se ne contano almeno 75 miliardi solo entro i confini della Via Lattea. Piccole, deboli e pallide (in media, un terzo della massa del Sole ed appena un millesimo quanto a luminosità) sono l’emblema dell’umiltà naturale e della modestia. Ma è proprio questa loro debolezza a renderle candidate ideali per cercare pianeti abitabili come la Terra. Anche se il metodo al quale ci si affida è quelli dei transiti, come lavora la sonda spaziale Kepler della Nasa. Osservare il transito di un pianeta davanti alla propria stella madre, infatti, è tanto più facile quanto più l’orbita è stretta. Per due motivi. Anzitutto, il passaggio ravvicinato fa sì che la porzione di stella occultata sia maggiore, dando origine quindi a un segnale, la variazione di luminosità, molto più intenso. Inoltre, più il pianeta orbita vicino alla stella, più esteso è il campo di vista dal quale è possibile cogliere l’occultazione. Avere un sole troppo vicino non è il massimo per i nostri occhi. A meno che l’astro in questione non sia poco più che tiepido così che anche un’orbita ravvicinata quanto una carezza del Papa possa trovarsi nella famosa fascia di abitabilità. Come nel caso delle nane rosse: le loro “mediocri” fornaci termonucleari viaggiano a ritmi talmente pacati che ci si può avvicinare senza timore di scottarsi. Magari per estrarne energia! Courtney Dressing, astronoma dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, insieme al suo team si è messa a passare al setaccio l’immenso catalogo di Kepler, 158mila stelle con relative occultazioni, per estrarne tutte le nane rosse in esso elencate. Un lavoro immane, al termine del quale sono però emerse dal mucchio tre autentici diamanti. Tre probabili esopianeti grandi quanto la Terra, in orbita attorno ad altrettante stelle, distanti da noi fra i 300 e i 600 anni luce e con una temperatura superficiale di poco superiore ai 3.000 gradi centigradi (sul Sole si raggiungono quasi i 6.000). Il primo esomondo, KOI 1422.02, è grande il 90 per cento della Terra, e lassù un anno dura 20 dei nostri giorni. Gli altri due, KOI 2626.01 e KOI 854.01, quanto a dimensioni sono rispettivamente 1.4 e 1.7 volte il nostro pianeta. E, quanto a periodo orbitale, 38 e 56 giorni. L’importanza della scoperta, anche per l’ApJ, non sta in queste tre nuove eso-Terre, che vanno ad arricchire un elenco di mondi alieni sempre più inflazionato. È la proiezione statistica che ne emerge a fare sognare: se quello di Kepler è un campione rappresentativo, ciò implica che circa il 6 per cento delle nane rosse ospita attorno a sé un pianeta abitabile. Data la loro enorme diffusione, è altamente probabile che già nel raggio di 13 anni luce dalla Terra (distanza per gli umani incolmabile con i razzi chimici e la sola “assistenza gravitazionale” utilizzata da sonde automatiche senza motori come le Voyager) ma in termini astronomici a un tiro di schioppo, ci si possa imbattere in una sorella della Terra. Sorella e forse gemella? Se per dimensioni e temperatura queste innumerevoli eso-Terre aliene non si discostano più di tanto dalla nostra, per altri aspetti potrebbero essere profondamente diverse. L’esagerata prossimità alla stella ospite, ha come diretta conseguenza un’alta probabilità di “blocco mareale”, vale a dire che questi pianeti, esattamente come fa la Luna con la Terra, potrebbero avere una spiccata tendenza a volgere verso il proprio sole sempre la stessa faccia. Dunque non ci sarebbe l’alternanza fra il dì e la notte. Ma ciò non precluderebbe necessariamente la possibilità di vita: a mitigare l’escursione termica basterebbe un’atmosfera sufficientemente densa o un oceano sufficientemente profondo, da consentire lo scambio di calore fra l’emisfero diurno e quello notturno. Insomma, come sottolinea Dressing, “non c’è bisogno d’un clone della Terra, per avere la vita”. Tutt’altra differenza potrebbe arrivare dall’età. Le nane rosse, rispetto alle stelle come il nostro Sole, sono assai più longeve. Dunque non ci sarebbe da stupirsi se ospitassero pianeti molto anziani con civiltà antichissime o estinte. “Potremmo trovarne uno che ha 10 miliardi di anni” – sostiene l’astrofisico David Charbonneau, fra i coautori della ricerca. Ed è difficile trattenersi dal fantasticare su come e per quanto tempo possa essersi evoluta la vita lassù. Le tecniche usate sono diventate sempre più sofisticate e precise. Si è riusciti ad osservare anche pianeti relativamente piccoli, della dimensione della Terra. Nel marzo 2009 fu lanciato da Cape Canaveral il satellite Kepler realizzato dalla Nasa con l’obiettivo di dare un grande impulso alla scoperta di pianeti extrasolari di dimensione terrestre. Nel giro di pochi anni la comprensione del nostro Universo è radicalmente cambiata. Kepler ha scoperto l’assoluta normalità che ci siano stelle circondate da pianeti come nel caso del nostro Sistema Solare. Un anno fa gli scienziati che studiano i dati di Kepler hanno annunciato la scoperta del primo pianeta di dimensione terrestre che orbita intorno alla sua stella in una fascia considerata di abitabilità. Secondo recenti valutazioni statistiche realizzate dallo Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, il 17 per cento delle stelle della nostra Galassia ospita un pianeta di dimensioni simili a quelle della Terra: considerando che la nostra Galassia è popolata da circa cento miliardi di stelle, ciò significa che potrebbero esserci lassù circa 17 miliardi di pianeti simili alla Terra. Alcuni di questi dovrebbero avere orbite molto vicine alle proprie stelle e, come nel caso di Mercurio per il nostro Sistema Solare, temperature superficiali molto elevate ed acqua completamente evaporata. In queste condizioni la vita, così come noi la intendiamo, sembra sia molto difficile. L’acqua allo stato liquido sembra sia un elemento fondamentale per la formazione di molecole complesse. Anche la presenza di un’atmosfera è cruciale per la nascita della vita, soprattutto per un’efficace termoregolazione planetaria. In ogni caso, se le statistiche sono corrette, nella sola nostra Via Lattea, è possibile che ci sia un buon miliardo di pianeti extrasolari di dimensioni terrestri nella fascia di abitabilità e nelle condizioni di poter ospitare la vita. Un numero straordinariamente elevato che gli astronomi non immaginavano fino a pochi mesi fa. È mai possibile che con una tale quantità di pianeti simili alla Terra non ci siano vite extraterrestri in contatto con noi? Per alcuni sembra estremamente probabile a causa delle distanze tra le stelle, anche quelle più vicine, straordinariamente elevate, dell’ordine dei milioni di miliardi o addirittura dei miliardi di miliardi di chilometri. Perché, dicono, non è possibile superare la velocità della luce, di soli trecentomila chilometri al secondo. Queste due condizioni non consentirebbero di immaginarsi un contatto diretto e renderebbero letteralmente impossibile un viaggio interstellare, sia per noi sia per eventuali probabili extraterrestri. L’altro limite fortissimo sembra la finestra temporale della nostra civiltà e, con tutta probabilità, anche di quella degli eventuali extraterrestri. Qualsiasi cosa nell’Universo nasce, vive e muore. Una stella, un pianeta, una specie animale, un essere umano, una civiltà. Tutto, intorno a noi, ha un ciclo che, necessariamente, termina con la morte o l’estinzione. Nel caso dell’Uomo, le prime tracce di ominidi risalgono a circa 2 milioni di anni fa ma quelle dell’Homo Sapiens moderno sono di 150mila anni fa. Il primo satellite artificiale realizzato dall’Uomo si è staccato dalla crosta terrestre poco più di cinquanta anni fa (Sputnik), il 4 Ottobre 1957. In quanto tempo si estinguerà la nostra civiltà? Centomila anni? Difficile prevederlo ma sicuramente, se continueremo a gestire così male il nostro pianeta, tra le insidie dei politicanti e degli affaristi da quattro soldi, molto prima. In un arco temporale così breve rispetto alla durata dell’Universo, sarebbe praticamente impossibile, o per meglio dire altamente improbabile, che due civiltà nate casualmente su due pianeti nella nostra Galassia si incontrino. Magari avranno vissuto in finestre temporali differenti e non avranno avuto modo di scambiarsi neppure un messaggio. La sproporzione fra la dimensione spaziale e quella temporale dell’Universo era stata già intuita dal grande scienziato Enrico Fermi che diede il nome al famoso Paradosso riguardante la possibilità di stabilire dei contatti con entità aliene. Eppure gli ufologi e gli esoscienziati, senza portare alcuna prova certa del contrario, sostengono che non ci sono stati già molti contatti con civiltà aliene e che non sono stati fatti molti avvistamenti di oggetti non identificati, i cosiddetti UFO e USO. Che, secondo alcuni, potrebbero essere impossibili navi spaziali provenienti chissà da quale pianeta lontano. Certamente sembra quanto meno bizzarro che una civiltà extraterrestre, dopo aver affrontato un viaggio massacrante durato forse molte decine di migliaia di anni, arrivi sulla Terra, si nascondi e non si palesi in maniera evidente se non ad alcuni fortunati terrestri! La verità è che nessuno oggi è in grado di provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che non sono mai arrivati o che lo sono. E che le fantasie degli ufologi e dei “debunkers” siano alimentate, come spesso accade, solo da una buona dose di letteratura e filmografia fantascientifica. Essenziale è non confondere la fantascienza con la scienza. L’indagine è addirittura recentemente approdata in Parlamento dove due Onorevoli molto terrestri e poco “extra”, entrambi laureati, uno in Fisica, hanno presentato il 20 Dicembre 2012 un’Interrogazione a risposta scritta, qui pubblicata. Il testo ha provocato molte reazioni tra la stampa scientifica, con riferimenti espliciti a esempi e testimonianze. Rivolgendosi ai Ministri della Difesa e degli Esteri italiani, i due Deputati si rifanno ad una “notizia”, già da tempo smentita a tutti i livelli, anche dal celebre fisico Stanton Friedman sul libro “Ufos and Aliens”, che presso l’Onu sarebbe stato costituito un organismo diretto dall’astrofisica malese Mazlan Othman con il fine di accogliere gli extraterrestri. L’interrogazione cita il Premier russo Medvedev, a conoscenza di segreti indicibili, peraltro già documentati dal film “Men in Black”! Non mancano riferimenti a Ronald Reagan, Winston Churchill, Jimmy Carter che, a detta degli interpellanti, hanno avuto frequenti contatti con gli extraterrestri o erano stati messi a conoscenza di nascoste verità da parte dei servizi segreti dei loro Paesi. Con riferimenti all’Area 51 ed al disastro di Roswell. Affermazioni non comprovate che si concludono con la domanda:“se il Governo intenda reperire elementi anche sul piano internazionale sull’argomento esposto, come ad esempio l’esistenza dell’Area 51, se l’Italia disponga e dove di eventuali strutture delle Forze armate o di altri Corpi dello Stato dediti allo studio del fenomeno ufologico”. Tema che sicuramente stimolerà l’interesse dei giovani parlamentari del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e della lista Scelta Civica di Mario Monti, nel nuovo Parlamento della XVII Legislatura. Preparare le Istituzioni all’arrivo degli Alieni sulla Terra, non è un’impresa parlamentare ardua e folle. Tuttavia crediamo più semplicemente che lo studio degli Extraterrestri (Eso-Scienze) debba muovere dall’Accademia, dalla scienza galileiana, consapevoli del fatto che, con i miliardi di eso-Terre là fuori nella Galassia e in chissà quante altre, potremmo non essere più con tutta probabilità civiltà isolate in un Universo smisuratamente grande. Il dibattito nel mondo accademico sulla vita al di fuori della Terra è sempre vivo e negli ultimi anni si è spostato sulla definizione della cosiddetta Zona Abitabile (habitable zone), quella parte di un sistema planetario in orbita attorno a una stella dove si verificano tutte le condizioni adatte alla vita. A cominciare dalla presenza di acqua allo stato liquido, perché dove c’è quella potrebbe, in linea teorica, esserci la vita. Gli scienziati del Dipartimento di Geoscienze della Penn State University, negli Stati Uniti, guidati da Ravi Kumar Kopparapu, hanno sviluppato un nuovo modello informatico per determinare se un esopianeta ricade nella zona abitabile, dove un mondo potrebbe mantenere l’acqua allo stato liquido: più un pianeta è vicino alla sua stella madre, infatti, più velocemente l’acqua presente evapora. Vale anche il processo contrario, quindi più un pianeta è lontano e più l’acqua si trasforma in ghiaccio. I ricercatori hanno scoperto che la zona abitabile è più lontana dalle stelle rispetto a quanto ritenuto precedentemente, comparando i nuovi risultati con i modelli precedenti. “Questo ha implicazioni sulle nostre ricerche di esopianeti abitabili – rivela Kopparapu. Con i suoi studenti ha utilizzato i dati aggiornati dei database sull’assorbimento dei gas serra (Hitran e Hitemp) che forniscono informazioni molto più precise sull’acqua e sull’anidride carbonica rispetto al passato e permettono di costruire nuove stime rispetto al modello precedente realizzato dal professor James Kasting della Penn State che offriva un calcolo più preciso del luogo in cui le zone abitabili possono trovarsi rispetto al loro sole. Secondo le stime del nuovo modello, la nostra Terra si troverebbe quasi al confine estremo di questa zona abitabile. Il modello non tiene conto però del contributo offerto dalle nubi che riflettono le radiazioni solari e stabilizzano il clima. Grazie all’uso delle tecnologie della Penn State e dell’Università di Washington, il team è riuscito a ricostruire i confini delle zone abitabili attorno ad altre stelle aliene. Oltre al nostro Sole. Nel precedente modello, acqua e carbonio non venivano assorbiti in modo così rilevante, portando quindi a pensare che i pianeti dovessero essere più vicini alla stella per rientrare nella zona abitabile. Con il nuovo studio, pubblicato su Astrophysical Journal, molti esopianeti sono usciti dalla zona abitabile e pianeti alieni ritenuti inospitali ora rientrerebbero in questa zona vitale! Il nuovo modello potrebbe aiutare gli scienziati nelle ricerche già in corso sugli esopianeti abitabili. Il modello può essere utilizzato per verificare se i pianeti scoperti dalla missione Kepler della Nasa ricadono all’interno della loro zona abitabile ovvero per scegliere dove concentrarsi nelle future ricerche di esopianeti. La missione Kepler ha trovato già migliaia di potenziali sistemi planetari. Alcuni più bizzarri del nostro e, forse, adatti alla vita. La famiglia dei pianeti extrasolari conosciuti cresce in continuazione, grazie anche agli scienziati dell’Osservatorio australe dell’Eso. Ma la scoperta descritta sulla rivista “Nature” da Thomas Barcly e colleghi, è di gran lunga il più piccolo esomondo alieno della famiglia: più piccolo di Mercurio, grande più o meno come la nostra Luna, Kepler-37b dimostra soprattutto quanto si stia affinando l’analisi raffinata dei dati acquisiti dal satellite Kepler della Nasa. Mai finora era stato possibile, usando il metodo del transito, individuare un pianeta così piccolo. Tutti gli esopianeti extrasolari studiati erano o di dimensioni simili a quelle della Terra o decisamente più grandi, nella classe dei giganti gassosi come Giove, Saturno e Nettuno. L’esopianetino si trova in orbita attorno alla stella Kepler 37 distante 210 anni luce dalla Terra nella costellazione della Lira, il trentasettesimo astro con attorno un sistema planetario alieno scoperto dal satellite Kepler nel corso della sua survey. È una stella abbastanza simile al Sole. Come la lettera “b” lascia intuire, il piccolo esomondo non è solo ma in buona compagnia. Il team internazionale di ricercatori composto da decine di astronomi guidati da Barclay del “Nasa Ames Research Center”, ha individuato con certezza almeno tre esopianeti in orbita attorno alla stella Kepler 37. Quelli designati “c” e “d” sono più prevedibili: le loro dimensioni li pongono in linea con la grande maggioranza dei pianeti extrasolari finora scoperti: rispettivamente 0,742 e 1,99 volte il raggio terrestre, quindi tutti e due della taglia del nostro mondo azzurro. Ma l’esoluna Kepler 37 “b” è davvero minuscola (0,3 raggi terrestri) e la taglia la pone piuttosto nella classe a cui appartiene il nostro satellite naturale, la Luna, che ha un raggio pari a un quarto di quello della Terra. Forse, un esopianeta così piccolo non ha né acqua né atmosfera, ed è solo un piccolo esomondo roccioso e desolato proprio come Mercurio, crivellato di crateri da impatto cosmico. Ma la cosa più interessante che ora i ricercatori intendono svelare è quanto possano essere diffusi nell’Universo esopianetini come questo. Secondo alcune teorie, più i pianeti sono piccoli più dovrebbero essere abbondanti nella Galassia. La verità è che i pianeti più piccoli di Mercurio erano stati sì previsti, ma mai “osservati” prima, e gli astronomi non erano nemmeno sicuri tecnicamente di poterlo fare. Perché il passaggio di un pianeta extrasolare così piccolo davanti alla sua stella madre non avrebbe mai potuto “oscurare” abbastanza la luce stellare per essere rilevabile da Terra. In effetti, occorre che si verifichino condizioni particolarmente fortunate in quanto a inclinazione dell’orbita, lunghezze d’onda della luce emessa e così via. In pratica, secondo i calcoli dei ricercatori, se anche tutte le stelle del catalogo di Kepler avessero attorno un pianeta di questo tipo, sarebbe possibile osservarlo solo nello 0,5 per cento dei casi. Nel frattempo, gli scienziati del Telescopio Subaru, osservando all’infrarosso il lontano sistema solare HAT-P-7 distante 1040 anni luce dalla Terra nella costellazione del Cigno, hanno confermato la scoperta di almeno due pianeti giganti in orbita attorno alla loro stella.
© Nicola Facciolini
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“La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo”(Marco 12,10). Nel grembo della giovane stella madre HD100546 gli astronomi europei dell’Osservatorio australe Eso in Cile, grazie al Very Large Telescope, hanno ottenuto quella che potrebbe essere definita la prima osservazione diretta di un esopianeta alieno gigante in formazione ancora inglobato nello spesso disco di gas […]
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