L’Aquila: Corruzione dilagante, il popolo sceglie la giustizia e il principio di legalita’

 Le frane geologiche si sovrappongono inesorabilmente a quelle politiche, economiche e giudiziarie. Il bene nel nostro Paese è sicuramente superiore al male che però fa più notizia soprattutto quando oscura ogni prospettiva di soluzione dei problemi della gente. Guardate al successo dell’Inter, un’impresa storica: il 18° scudetto, il quinto consecutivo e siamo solo al “secundo […]

 Le frane geologiche si sovrappongono inesorabilmente a quelle politiche, economiche e giudiziarie. Il bene nel nostro Paese è sicuramente superiore al male che però fa più notizia soprattutto quando oscura ogni prospettiva di soluzione dei problemi della gente. Guardate al successo dell’Inter, un’impresa storica: il 18° scudetto, il quinto consecutivo e siamo solo al “secundo titulo”! Pensate solo a quello che i nostri scienziati e ricercatori potrebbero fare per la nostra economia ed industria, se solo la libertà della ricerca scientifica e tecnologica (con annessi finanziamenti) fosse al primo punto di ogni agenda di governo. Ma non è così che vanno esattamente le cose nel Bel Paese. Nell’interessante articolo di Gianluigi Nuzzi, pubblicato sul quotidiano Libero alcuni giorni fa, scopriamo l’esatta fotografia di che cosa sia oggi l’Italia nel 150° anniversario della sua Unità. Nell’intervista al dottor Giancarlo Capaldo, procuratore aggiunto di Roma, che coordina una delle inchieste più scottanti sulla “cricca” del momento, viene fuori l’immagine di un Paese dove la corruzione è un qualche cosa di dilagante. “Non è più sotto controllo né l’emersione dei casi di corruzione è controllabile – spiega il Magistrato – affiora in modo diffuso e dilagante, rompe gli argini in modo casuale”. Se nel 1992 era concentrata su Milano oggi è diffusa su più territori. “Tangentopoli esplose perché l’eccessiva voracità mise in crisi il sistema. Oggi siamo di fronte a un fenomeno molto preoccupante, abbastanza simile a quello del 1992. Allora, con la maxitangente Enimont si superò il limite di guardia compatibile con lo stesso sistema politico-economico e andò a casa la Prima Repubblica. La mia sensazione è che in questi ultimi anni il livello di guardia sia andato via via crescendo, indipendentemente da chi governava. Vi è stata una continuità dal 1994 con la fine della vecchia classe politica. L’opera di contrasto di Mani pulite non si è completata, quelle indagini non hanno dato come esito la ricostituzione della legalità ma il cambio della classe politica. E oggi siamo in una zona da allarme rosso”. I motivi sarebbero diversi. “Non abbiamo colto quanto emerso con le inchieste degli anni ’92-‘94. I reati contro la pubblica amministrazione non sono affrontati normativamente e dalla magistratura in modo sistematico, non c’è quel background che invece abbiamo per combattere il terrorismo e la mafia.  C’è quindi tra gli investigatori minore professionalità e attenzione, non esiste particolare preparazione nella lotta alla criminalità economico-amministrativa perché non è mai stata una priorità nel nostro Paese. Non si è mai drammatizzato il fenomeno colpendo dal 1994 solo qualche episodio. E questo permette le strumentalizzazioni più ampie e inquietanti dell’azione giudiziaria”. Le strumentalizzazioni dei pubblici ministeri? Avete capito bene! “C’è gente che strumentalizza il potenziale automatismo giudiziario, l’obbligatorietà dell’azione penale per fini propri, per colpire avversari politici ed economici. Quando a un pubblico ministero sono posti davanti agli occhi dei fatti di rilevanza penale li devi per forza perseguire”. Non solo. “Nel mondo e non solo in Italia lo strumento giudiziario è uno strumento di controllo sociale per il potere esecutivo e guardi non sto parlando di questo governo attuale…Non esiste contrapposizione tra mondo giudiziario e mondo politico. Anche oggi non viviamo questa contrapposizione, ma è il contrasto all’interno del mondo politico che fa emergere queste indagini. Se non ci fosse questo contrasto le cose non verrebbero fuori”.
E’ la politica ad alimentare dal suo interno le polemiche. “Il dato più preoccupante è che oggi ci sono profondi contrasti tra maggioranza e maggioranza, contrasti molto forti che portano alla luce situazioni da accertare penalmente e che se fossero vere sarebbero molto preoccupanti”.
L’emersione processuale in sede investigativa di fatti di rilevanza penale “è un avvenimento sempre eccezionale perché l’inchiesta ha sempre dei costi per tutti e quindi non è la prima strada che un gruppo di potere utilizza. La sceglie a ragion veduta. E oggi il nostro Paese è in una situazione drammatica. Bisognerà vedere anche la responsabilità di voi giornalisti…”. Anche i media vengono a loro volta strumentalizzati. “Tutto contribuisce e alimenta quello che chiamate il clima”.
Cosa possono i giudici contro questo sistema di cose? “La magistratura è un potere satellite che deve ottenere il consenso per poter agire. Il consenso è sia quello di chi ti sottopone fatti di rilevanza penale sia quello popolare. Senza questi non vai da nessuna parte, non puoi effettuare il controllo della legalità. Se i cittadini non vogliono, la magistratura rischia di essere un don Chisciotte contro i mulini a vento. È accaduto la stessa cosa con il terrorismo. Prima la magistratura ottenne il consenso per indagare sul terrorismo di sinistra poi su quello di destra, così per la mafia”.
La crisi economica “aiuta la magistratura a incontrare il consenso della gente e a raccogliere informazioni. In tempi di crisi economica c’è di nuovo il consenso sociale. Lo spreco di denaro, il privilegio offende chi stringe la cinghia, lo tocca sul piano personale e non solo etico”.
L’importante è far splendere il Sole ovunque perché nel nostro Paese non vi sia più un solo “porto delle nebbie”. Se negli anni di Mani pulite fioccavano gli arresti, oggi è cambiata la strategia delle indagini. “Le misure cautelari sono fatti eccezionali, la magistratura poi per autodifesa evita di compierli soprattutto nel campo dei colletti bianchi che hanno le leve del potere in mano. Anche perché un conto è rubare, e vi è stata sempre una scarsissima considerazione sociale di questo reato, un conto è uccidere”. Il pacchetto anti-corruzione proposto dal governo “è una risposta blanda. Il problema è la disfunzione del processo penale con norme inadeguate. Negli Usa in un mese concludono un processo per omicidio senza aver necessità di arrestare l’imputato. Da noi il fatto che il processo con detenuti cammini spedito diventa incentivo per spiccare quelli che si chiamavano mandati di cattura. Le norme invitano all’arresto perché solo lì funziona il processo”.
Consapevoli degli errori della Prima Repubblica, la classe politica di oggi dovrebbe reagire. “La politica dovrebbe porsi il problema, chiedersi se sta avvenendo qualcosa di analogo con quanto segnò gli anni ’90, perché tutto ciò può compromettere l’assetto politico del Paese. Cogliere anche quanto sia importante il controllo della legalità per il governo del Paese. Il politico detta la norma ed è importante che venga osservata, perché il controllo della legalità consente il buon governo e azzera la dispersione delle risorse, che così non vanno ad alimentare ceti parassitari”.
Principi sacrosanti del Diritto, validi anche nell’analisi politica dell’archiviazione del delitto dei coniugi Libero Masi ed Emanuela Cheli, consumato il 2 giugno 2005 a Nereto, in provincia di Teramo: una strage senza colpevoli alla sbarra, senza processi e senza giustizia, che dovrebbe essere oggetto della famosa trasmissione televisiva Quarto Grado di Rete4. Secondo l’on. Rapagnà “le indagini sono state sbagliate sin dall’inizio e il nulla di fatto che ha portato dopo 5 anni all’archiviazione, ha dato ragione a chi, , ebbero subito a chiedere l’intervento della Commissione Parlamentare antimafia, un’indagine ispettiva del Ministro della Giustizia e la riunione straordinaria e permanente a Nereto della Commissione provinciale per la sicurezza e l’ordine pubblico”. Nella dichiarazione di Pio Rapagnà, affidata a una nota, l’ex parlamentare ricorda come fosse oggi “la dichiarazione del Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Teramo, Colonnello Izzo, in relazione al “grande magone” che si portava dentro nel momento in cui lasciava il suo incarico a Teramo, forse per non avere potuto concludere positivamente le indagini sull’efferato delitto dei coniugi Masi di Nereto. Attestava indubitabilmente il disagio “collettivo” che si provava di fronte alla mancanza di risultati e di indizi individuati dagli investigatori e dagli inquirenti, nel mentre risultava incomprensibile ed inspiegabile la secretazione di tutto ciò che atteneva alle indagini stesse”. Rapagnà ripensa ogni giorno in questi anni amaramente e dolorosamente trascorsi, “al fatto che molto verosimilmente il grande magone del Colonnello Izzo potesse allora derivare anche dalla circostanza di essere stato informato immediatamente dal sottoscritto circa il possibile e più probabile movente del terribile assassinio, che secondo me era da ricercare, tra l’altro, nell’ambito dell’ampia e variegata attività professionale dell’Avv. Libero Masi piuttosto che negli ambienti della criminalità comune e degli extra comunitari, sulla base dell’ipotesi di una rapina finita male”.
Rapagnà ritiene ancora oggi “che molto probabilmente alcune immediate dichiarazioni “spontanee” di cittadini e rappresentanti istituzionali di Nereto e della Provincia di Teramo, di amici e di vicini dei coniugi Masi, avrebbero potuto fornire elementi utili alle indagini “anche e principalmente” nella direzione delle attività professionali di Libero Masi. Invece ci si avventurò – conclude l’ex parlamentare – in improvvide e indimostrate dichiarazioni ed interviste in esclusiva alla stampa, sino all’improvvisa e successiva decisione di secretare il tutto e fare calare sulla drammatica vicenda un enorme silenzio stampa, che in quei giorni alcuni di noi, amici di Libero Masi, chiedemmo ripetutamente che fosse tolto, affinché tutti i cittadini di buona volontà e gli stessi organi di informazione potessero, senza timori di grandi e gravi pericoli personali, collaborare con serenità e responsabilità nella ricerca della verità e dei colpevoli”.

Il brutale assassinio dei coniugi Masi è ora un “cold case” in salsa aprutina. In Italia, il 35% dei delitti rimane senza colpevole, la percentuale più alta fra i grandi paesi europei. In provincia di Teramo, la mattanza dei coniugi Masi, il 2 giugno 2005 in una villa di Nereto (Te), in pieno centro abitato, è stata la più efferata e terribile che si ricordi. Un massacro tra verità e misteri di un duplice omicidio quasi perfetto. Una vicenda che ancora attende di essere capita. Chi ha sbagliato cosa? I giornalisti hanno fatto il loro dovere? Una strage che meriterebbe una puntata speciale di “Porta a Porta” e di “Quarto Grado”. Il dr. Cristoforo Barrasso, scomparso il 4 dicembre 2008, all’epoca Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo, alla vista dei due corpi massacrati e del sangue sparso ovunque misto a materia celebrale, aveva parlato di “efferatezza, crudeltà eccessiva e violentissima soprattutto sulla persona dell’avvocato”. Ecco i fatti. Giovedì 2 giugno 2005, l’avvocato Libero Masi e la moglie Emanuela Cheli venivano barbaramente trucidati nella loro casa di via Lenin a Nereto, poco dopo la mezzanotte. La pista più accreditata resta ufficialmente quella della rapina finita male perché i particolari della vita privata non rivelerebbero nulla. Gli autori di quell’orribile massacro sono ancora a piede libero. La gente da quel giorno non dimentica, vive nell’angoscia di un delitto quasi perfetto, sconvolta dal fatto che gli assassini sono ancora ignoti.

La Magistratura, per scongiurare la fuga di notizie rilevanti per l’inchiesta, fino a martedì 31 gennaio 2006 aveva secretato gli atti. Seguirono speculazioni che non poche preoccupazioni avevano destato al dr. Barrasso impegnato con i suoi pm, fino in fondo, per fare chiarezza sulle ultime ore di vita dei coniugi Masi. Se la magistratura e gli inquirenti hanno lavorato per dare un volto agli assassini definiti da alcuni:“perfezionisti del crimine”, è anche merito suo. L’archiviazione è un dispositivo tecnico. Le indagini proseguono. Ma il Legislatore ha il sacrosanto diritto-dovere di lasciare lavorare in santa pace la magistratura con gli strumenti giuridicamente e tecnologicamente più idonei, in condizioni di massima libertà e sicurezza per tutti. Le intercettazioni sono fondamentali per scoprire i criminali. La tragica vicenda dei Masi, tuttavia, va inquadrata in un contesto a dir poco inquietante per una cittadina di appena 5 mila abitanti come Nereto. I neretesi da parte loro non sono più sicuri di nulla ed ancora la pensano così:“Non si uccide così una persona solo per rapina: hanno trovato parte di una porta bruciata. Perché avrebbero dovuto perdere tempo cercando di appiccare il fuoco? Non penso sia stata una rapina: voci di paese almeno dicono così. Se si tratta di una rapina siamo tutti coinvolti allo stesso modo, non solo noi di Nereto. Si vada avanti fino in fondo: chiamate pure l’FBI, vogliamo gli assassini!”. Come se le tecnologie investigative della scientifica italiana non fossero all’avanguardia. Dubbi e perplessità, comprensibili che sono sempre stati al vaglio degli inquirenti per evitare l’ennesimo cold case. “Se gli assassini sono venuti da fuori – rileva un altro cittadino – com’è possibile che nessuno si sia accorto di niente, visto che la casa dei Masi non è lontana dal centro del paese? Sembra impossibile che gli inquirenti non siano ancora venuti a capo di nulla”. Quel duplice assassinio è un fatto drammatico, crudele, atroce:“non esiste parola per toccare il fondo d’un pozzo di così abissale efferatezza” – aveva dichiarato il dottor Barrasso in un’intervista. Siamo al cospetto di una vicenda rifiutata dalla coscienza collettiva, impossibile da collocare tra i ricorrenti fatti della cronaca nera e della storia giudiziaria locali. Tra le mura di casa Masi a Nereto, quella tragica notte di tre anni e mezzo fa, sono saltati tutti i parametri del crimine. Ma c’è orrore e orrore, e lo abbiamo scoperto solo con gli inquietanti eventi di casa Masi. Una carneficina: la furia omicida aveva spazzato via due vite ma anche ogni barlume di civiltà e di sentimento umano. In quella fosca e truce vicenda non c’è traccia di pietà. Come se una furia assassina si fosse abbattuta ciecamente su quella signorile palazzina di Nereto. Dove l’uomo si è fatto belva per sorprendere di notte marito e moglie, aggredirli e trucidarli, con la ferocia, l’impunità, il cinismo e la forza distruttrice di una folgore. Ma lasciando tre impronte a dir poco rilevanti per gli inquirenti, che potrebbero aver tradito l’identità degli assassini. Una lasciata su una copertina di plastica di un libro, nella libreria dell’avvocato, dal quale manca una pagina strappata forse usata per accendere un fuoco presso una porta interna; una lasciata su una porta e l’impronta plantare (una “strisciata”) impressa sul sangue non ancora coagulato. La traccia è stata rilevata ed asportata per eventuali confronti quando forse verrà trovata la scarpa gemella. Dunque non siamo di fronte a un delitto perfetto. Certo, i colpevoli sono stati molto agevolati dalle 12 ore intercorse dall’omicidio alla sua scoperta, dando loro la possibilità di occultare delle prove che altrimenti non avrebbero fatto in tempo a nascondere. Ma perché colpire con quell’implacabile crudeltà? La gente non dimentica, vuole che la verità trionfi nella giustizia. Vuole che il caso venga riaperto, per rendere giustizia ai morti e ai vivi, per dare una risposta a quanti da allora consumano le ore della notte e del giorno nella morsa di un incubo. Per capire se c’è ancora speranza di vincere il male su questa Terra, sulla nostra terra. Il bandolo della matassa va trovato, i colpevoli assicurati alla giustizia. Sarà poi un Museo della Criminologia, che un giorno sorgerà probabilmente proprio tra le pareti di quella villa oggi abbandonata, a ricordarcelo per sempre. I magistrati aprutini assicurarono che i responsabili sarebbe stati presi: ma avevano chiesto ai cittadini di Nereto e dintorni, la massima collaborazione. Ora la Procura ha archiviato il caso. I delitti impuniti (senza colpevoli alla sbarra) salgono a sei in provincia di Teramo. La nostra provincia non è più l’isola esemplare di sicurezza e tranquillità. Inevitabile pensare ad un filo nero conduttore: forse a un “serial killer” impazzito o alla spietata mafia orientale? Il Comitato per l’ordine e la sicurezza è la sede istituzionale deputata a porre un freno alla criminalità provinciale. In Val Vibrata da qualche anno a questa parte, si uccide con impressionante violenza, forse per “sport”, per poi sparire dalla circolazione come fantasmi. Non vogliamo creare allarme sociale. Anzi, invochiamo più prevenzione e sicurezza. Ma ogni ipotesi diventa a questo punto lecita, quando il lavoro degli inquirenti pare brancolare nel buio. Che faremo la prossima volta? Il delitto della donna polacca e il massacro dei coniugi Masi, invocano giustizia. I due misteri hanno alcuni elementi in comune: l’inaudita ferocia dell’ignoto massacratore, l’area circoscritta in cui i fatti di sangue sono stati compiuti, la scomparsa dell’arma del delitto. Aspetti da non sottovalutare, a cui aggrapparsi, per rilanciare il difficile lavoro d’indagine ma occorre una svolta investigativa. Sempre in provincia di Teramo a Pineto (Te) attende risposta il cosiddetto “giallo della macelleria”. Nell’immediato dopoguerra, per la macchina giudiziaria, a Ponzano di Civitella del Tronto (Te), decisamente meglio andò il duplice delitto della “Banda Pennesi” che faceva capo ad un ex carabiniere. Il quale una notte, insieme ad altri tre o quattro sbandati, massacrò un benestante della zona e sua sorella, mentre la domestica, nascondendosi sotto il letto, si salvò per miracolo. Fu un super-poliziotto di allora a risolvere il mistero con la collaborazione di un semplice appuntato dei carabinieri, che da un fazzoletto macchiato di sangue (senza analisi del Dna!) risalì al capobanda e, quindi, ai complici. Altri tempi? Anche per la criminalità e per chi deve tenerle testa. Fa impressione che sei delitti restino oggi impuniti. Oggi come ieri. Ma ora, sempre più spesso, accade che si accetti come normale e inevitabile. Per dimenticare in fretta. Un tempo i casi più clamorosi della cronaca nera rimanevano a lungo al centro dell’attenzione dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica. Fino ad una svolta decisiva e convincente. Si era meno disposti a dimenticare e a seppellire i fatti gravi sotto la coltre di notizie inutili. Adesso si invoca persino il silenzio stampa con gli organi d’informazione che, purtroppo, assecondano, tutto sommato, una tendenza preoccupante. Quella di (far) dimenticare in fretta certe vicende allarmanti e i loro misteri. E quella degli assassini in libera circolazione, pronti all’ennesimo delitto, a colpire ancora. La triste constatazione dell’ineluttabile destino, non appartiene alla nostra cultura. Interessante è la testimonianza di un cronista teramano, Sergio Scacchia, su una vicenda per certi versi ancora oscura, da portare sicuramente all’attenzione dei grandi media nazionali e internazionali. In Italia, il 35% dei delitti rimane senza colpevole, la percentuale più alta fra i grandi paesi europei. “Un referendum lanciato da un sito internet che chiedeva ai suoi lettori quale fossero gli omicidi irrisolti più eclatanti degli ultimi 50 anni – ricorda Sergio Scacchia – qualche tempo fa ha visto nei primi posti il delitto di via Poma, quello di Cogne, la morte della contessa Filo Della Torre e la terribile attuale vicenda di Garlasco. Alcuni hanno anche ricordato il grande mistero degli anni ‘90, rimasto fondamentalmente irrisolto, quello del mostro di Firenze, serial killer che ha seminato a lungo in Toscana un’atmosfera di terrore. La storia dei delitti impuniti, delle stragi che hanno insanguinato il nostro paese, rimaste senza responsabili, delle trame segrete che hanno mortificato la vita democratica, deve essere ancora scritta”. Risolveremo i tanti delitti impuniti della nostra terra: i cosiddetti “cold case” della fortunata serie tv? “Non sono qui certamente a mettere in discussione la grande abnegazione che anima magistrati e le stesse forze dello Stato. Però mi chiedo perché la ripulsa per l’orrore e la violenza, ma anche la curiosità e lo stupore davanti ai comportamenti più efferati o agli episodi rimasti insoluti, si annullino quando si parla della dolorosa vicenda dei coniugi Masi di Nereto. Eppure gli ingredienti per solleticare l’opinione pubblica c’erano tutti, quel giugno del 2005: l’intrusione di sconosciuti nell’abitazione, la presenza di vari segni di ripetute violenze, con grandi ematomi sparsi su tutto il corpo, i due colpi di coltello che hanno fracassato i crani delle vittime e provocato delle ferite lunghe quasi 15 centimetri. Se oggi passeggi per Nereto e parli con qualcuno dei passanti, ti rendi conto che uno su tre è albanese o comunque forestiero. E degli italiani con cui ti imbatti capisci subito che non parlano volentieri di quell’angosciosa vicenda”. Quali testimonianze hai raccolto a Nereto? “Eccone una: i coniugi Masi – dicono alcuni – non li hanno uccisi né rumeni, né cinesi, tanto meno gli albanesi. Ne sembra convinta una signora, ex lavandaia oggi in pensione, che ricorda un viaggio dell’avvocato in Sicilia, dal quale tornò a suo dire “stranito”. Qualcosa del genere fu detta anche da alcuni parenti, nei primi giorni di indagine dell’ormai lontano 2 giugno 2005. Di certo l’avvocato era al centro di complicati interessi finanziari, era il cuore pulsante di tante realtà; nella sua professione che svolgeva con grande professionalità, incontrava migliaia di persone, alcune inevitabilmente, poco raccomandabili”. Ma tutto questo ha aiutato gli inquirenti a trovare il bandolo della matassa? “Si è parlato di mafia, ndrangheta, dopo il viaggio nell’isola di Montalbano, ma poi si è scoperto che i coniugi non erano mai stati avvertiti con i mezzi arcaici e medioevali dei mafiosi: proiettili in busta, croci o fiori. Niente di niente. Né intimidazioni verbali, né minacce generiche. Si passò poi a ipotizzare una rapina. Ma ci si rese conto che Libero Masi e sua moglie non erano ricchi; benestanti sì, ma non ricchi. E poi qualcuno obiettò che il delitto fosse troppo efferato per trattarsi di semplice rapina”. Cosa ne pensi, oggi, del silenzio assoluto dei mass media e degli inquirenti? “In un Porta a Porta di qualche tempo fa, il giornalista Bruno Vespa elencò una serie di delitti tra i più misteriosi, ma dimenticò proprio la gravissima vicenda teramana. Strano come il clamore si materializzi per delitti come quello di Cogne, di via Poma, di Garlasco e poi cada nel dimenticatoio, in un’incredibile sordina mediatica, uno dei più efferati omicidi che la storia nera d’Italia ricordi. Il pericolo è che ci attendono anni di silenzi e di invisibilità per giungere, infine, al risultato che i coniugi Masi si sono autodistrutti visto che di assassini in giro, gli esperti del R.I.S. non ne trovano”. Ma le indagini proseguono con le moderne tecniche investigative…“Certo le indagini continueranno e con esse le verifiche opportune, ma è sempre più difficile giungere alla verità. Intanto a Nereto i cittadini dormono tranquilli, convinti come sono che gli autori del duplice omicidio siano venuti da lontano. Gente esperta, tanto da non lasciare traccia alcuna. Roba non da mafiosi di campagna o drogati in cerca di dose. Qualcosa di grande per la nostra sonnolenta provincia di Teramo, non attrezzata compiutamente a combattere tale criminalità organizzata”. Hai raccolto altre testimonianze? “Certo. Eccola: però sapevano che ucciderli vicino casa sarebbe stato un gioco da ragazzi – ci diceva un signore mentre sorseggiava un caffè nel bar in piazza – lì intorno c’è l’ospedale con il Sert, il campo sportivo, pochi anziani abitanti, alcuni rintronati dagli anni ed entrare in quella villa fatiscente era semplice perché con una spallata aprivi tutto! La vecchia madre della signora Masi che abitava sopra non riuscì a sentire nulla in quella tragica notte e per lungo tempo è stata tenuta all’oscuro dell’orrenda fine subita dalla figlia. Ora non è chiaro dove sia andata ad abitare. I due figli dei coniugi, mai velati, per fortuna, da qualsiasi sospetto, non vogliono sentire, ed è comprensibile, rievocazioni di quella maledetta sera”. L’on. Pio Rapagnà evidenzia “la mancanza di informazioni circa i risultati conseguiti dopo 5 anni di indagini: non è un fatto secondario per la opinione pubblica e non va affatto trascurata dagli organi di informazione. Né tantomeno sono da sottovalutare le modalità, la tempestività e la scelta della direzione che a caldo è stata impressa alle medesime indagini, da cui conseguentemente sono state create le condizioni ambientali per un’effettiva possibilità di pervenire alla individuazione ed alla cattura dei feroci assassini, purtroppo non individuati subito e quindi ancora in libertà”. Secondo Rapagnà “ciò, tra l’altro, aumenta ancora di più il disagio originario di cinqueo anni fa, l’angoscia e la preoccupazione dei Cittadini, molti dei quali ritengono che la Giustizia non possa in nessun caso essere amministrata e fatta funzionare “separatamente ed indipendentemente” dal contesto sociale, dalle attese, dalle ansie e dalle paure dei Cittadini medesimi, residenti ed operanti nel nostro territorio provinciale e locale”. Proprio per questo, Rapagnà ribadisce oggi, come fece allora, la sua convinzione, “purtroppo non dimostrabile a priori: penso che, escluse altre ipotesi, il delitto dei coniugi Masi debba essere indagato come un delitto di tipo mafioso, frutto di una violenza criminale completamente estranea alla nostra cultura e realtà sociale e politica”. Rapagnà invita “il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo Dott. Ferretti a farsi coraggio e, per quanto di competenza, a provvedere affinché le indagini vengano “riportate” al punto di partenza e con una rinnovata sollecitudine ed una puntuale informazione pubblica si ricominci d’accapo, in quanto la terribile gravità ed efferatezza dei fatti accaduti a Nereto è rimasta viva davanti agli occhi di tutti e non potrà mai essere cancellata e archiviata”. Rapagnà rinnova “al Prefetto ed al Questore di Teramo la richiesta di convocazione a Nereto del Comitato Provinciale per la sicurezza e l’ordine pubblico” ed auspica “la visita in Provincia di Teramo della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e, alla luce del duplice delitto dei coniugi Masi, per “verificare” con atti ispettivi e con i poteri della Magistratura, l’eventuale presenza operativa di altre associazioni criminali similari e la esistenza o meno di infiltrazione di soggetti ed organizzazioni con finalità malavitose”. Chi è a conoscenza di fatti e circostanze interessanti utili alla ripresa delle indagini, faccia sentire la propria voce, anche attraverso “dichiarazioni spontanee” davanti agli inquirenti. La giustizia segue il suo corso e, abbiamo ragione di credere, che prima o poi, grazie anche alle nuove tecnologie (si spera anche dallo spazio, stavolta seriamente!) i criminali dei coniugi Masi saranno assicurati alla loro buia cella per lunghi anni. Senza sconti e riduzione di pena, si spera. A costo di fare una Legge ad hoc.

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Nicola Facciolini

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