Portare via i propri figli dal campo rom. È questa la motivazione numero uno di quei rom che a Roma hanno deciso di lasciare i campi attrezzati e andare a vivere in appartamento, in affitto a spese proprie. Si tratta di poche famiglie, ma che per la Cooperativa Ermes, che da anni lavora con i rom nella capitale, rappresentano una “start up” da valorizzare. A raccontare i percorsi e le difficoltà di questi “pionieri” dei campi è Fabrizio Massara, vice presidente della cooperativa e responsabile per l’accoglienza e l’integrazione sociale. “Si tratta di progetti pilota”, spiega Massara. Progetti che hanno dato dei buoni risultati e che solo in qualche caso hanno visto i protagonisti ritornare sui propri passi. Tuttavia, progetti di accompagnamento come questi raramente vengono presi in considerazione dalle amministrazioni, anche se costano poco. “Non esistono risorse dedicate per questo genere di interventi – racconta Massara -, tanto che finora abbiamo fatto ricorso a Fondazioni o Municipi del territorio di Roma”.
Nonostante in Italia siano tante le famiglie rom e sinti che vivono in casa, per chi vive in un campo, fare il passo decisivo per andare a vivere in appartamento non è facile. “La prima difficoltà è nel lasciare il campo – spiega Massara -. Potrebbe sembrare paradossale, ma così è. Il campo, con tutti i suoi aspetti negativi, rappresenta anche un elemento di sicurezza per chi ci vive da tanti anni. E poi non si paga l’affitto, non si pagano utenze”. Non è, quindi, solo l’incertezza economica disincentivare l’uscita. “C’è anche il contesto esterno, che spesso non è accogliente quando si tratta di famiglie che provengono da un campo rom. Quando cerchiamo casa, infatti, troviamo parecchie resistenze sia da parte delle agenzie che dei privati che una volta scoperta la loro provenienza, si tirano indietro”. Ultimo, il mercato immobiliare della capitale: “proibitivo”, chiosa Massara. Tuttavia, se prese per il verso giusto, si tratta di difficoltà, che possono essere “affrontate e superate”.
Ed è qui che entra in gioco la cooperativa Ermes. “Noi forniamo una consulenza iniziale – spiega Massara -, un sostegno nella ricerca dell’abitazione, una consulenza nell’atto della stipula del contratto di locazione e il tutoraggio che accompagna questo percorso di inserimento abitativo per tutta la durata del progetto”. C’è anche un sostegno economico, a fondo perduto che consente “di far fronte alle spese iniziali come la caparra, le anticipazioni sulle mensilità, la registrazione del contratto e a partire dal primo mese di locazione, il pagamento dell’affitto in una misura che non sia eccessiva perché lo scopo è quello di fare in modo che la famiglia, una volta terminato il sostegno, si metta nella condizione di poter affrontare in maniera autonoma i costi di un’abitazione”. Attualmente sono due le famiglie seguite passo passo da Ermes. Una terza per il momento ha rinunciato, ma con altre due si stanno muovendo i primi passi. Complessivamente sono circa una dozzina le famiglie con cui sono stati portati avanti progetti di questo tipo. Progetti del genere, però, non vengono proposti a tutti. Per il momento si tratta di persone seguite in progetti di borsa lavoro e che hanno ottenuto un contratto stabile, o persone seguite in interventi formativi e che grazie a questi hanno trovato occupazione.
L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Florin, che insieme alla sua giovane famiglia ha deciso di lasciare un campo attrezzato. “Ci ho messo due anni per prendere questa decisione – spiega –. Volevo andar via già due anni fa, ma avevo paura. Poi mi sono deciso e ora speriamo che vada bene”. Florin oggi abita in un quartiere periferico di Roma, con moglie e due bambini iscritti a scuola. “Mi trovo bene qui, è meglio del campo – spiega -. La sola cucina è grande quanto l’intero container che avevo. Oggi lavoro e per i miei bambini è un’altra crescita, un’altra vita”. Nel primo anno, il costo complessivo per sostenere un progetto di fuori uscita dal campo non supera i 5 mila euro. “Sono una sorta di start up – spiega Massara -. Il sostegno ha lo scopo di aiutare queste persone nell’impatto con una vita completamente diversa da quella che hanno conosciuto fino ad allora e anche se i numeri sono piccoli, si tratta di progetti pilota che hanno lo scopo di sondare la praticabilità di un percorso. Da progetti pilota, però, dovrebbero diventare organici, ma perché diventino tali è necessario che ci siano le risorse”. Dall’amministrazione capitolina, però, non sembra ci siano stati segnali di interesse verso questo tipo di progetti, spiega Massata. “Negli ultimi anni è stato molto difficile, se non impossibile interloquire con l’amministrazione su temi che abbiano a che fare con la progettualità finalizzata all’inclusione sociale – aggiunge -. I fondi su questi temi sono stati ridotti a vantaggio delle politiche securitarie e il Piano nomadi ha imposto anche a noi altre priorità. Le risorse, però, ci sono ma vengono utilizzate a svantaggio delle politiche di inclusione”.
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