Anche se nessuno ne parla e la Siae si è offerta di contribuire (ma solo contribuire) alle spese, a tre mesi dalla sua morte Franco Califano è ancora insepolto: un corpo che si decompone in un loculo pubblico del cimitero di Ardea, in attesa di un recetto dove farlo con dignità maggiore e come si conviene, per una umanità uscita dalla sua origine ferina.
Anche ad Ettore, infine, fu accordata dal fiero Achille sepoltura, ma non al “Califfo”, che negli ultimi anni non navigava nell’oro e nel 2009 aveva chiesto di poter usufruire della legge Bacchelli, che prevede un sussidio mensile per quanti abbiano dato lustro, in vita, alla cultura italiana, senza risposta, naturalmente, come accaduto a tanti, come Dario Bellezza, lasciato morire da accattone, di freddo e di fame alla Stazione Termini della splendida e civilissima Roma.
In una nota della Società Italiana degli Autori ed Editori, di due mesi fa, si leggeva che “sentito il Commissario straordinario Gian Luigi Rondi e il presidente designato Gino Paoli, il direttore generale della Siae è intenzionato ad offrire un contributo economico sia per risolvere il problema della tumulazione sia per ogni necessità del futuro museo dedicato all’autore di ‘La musica è finita’, ‘E la chiamano estate’ e tanti altri importanti successi”.
Sono passati altri 60 giorni, Rondi ha dato il via libera all’intervento ufficiale del direttore generale Blandini, ma il corpo senza vita di Califano attende disfatto ad Ardea.
Penso a lui e mi viene in mente il corpo mummificato di Evita Peron, la figlia illegittima che a Los Toldos giocava ai trapezi sugli alberi del paradiso, allevava bachi da seta nelle foglie di gelso, prima Dama in spolverino e tacchi che trovò se stessa sui balconi presidenziali e venne ricevuta dal papa e si guadagnò le copertine di Life; demagoga veemente e spettacolare, temeraria e irresponsabile, che parlava con una brutalità infantile, ma fece votare le donne e conosceva la lingua dei dannati e che nel 1952, a trentatré anni, morì in seguito alle emorragie vaginali provocate da un tumore; con il corpo vetrificato che cominciò, due anni dopo, a peregrinare, ad essere trasferito da un posto all’altro, perché non venga localizzato dalle sacche di resistenza peronista e sottratto come una bandiera.
Ma mentre quello di Evita è un cadavere incorrotto e muficato, il romanzo migratorio di un cadavere che, per essere riconosciuto dalle copie ha ricevuto una incisione segrteta: una cicatrice a forma di stella dietro un orecchio; quello di Califano è un cadavere immobile e in decomposizione, che non è più neanche copia di se stesso.
“Una farfalla che sbatteva in avanti le ali della sua morte, mentre quelle della sua vita volavano all’indietro” ha scritto di Evita Tomás Eloy Martínez nel suo “Santa Evita”, ma solo il silenzio scrive le sue note sul corpo abbandonato di Franco Califano.
Ricorda Giusseppe Bonchi nella Introduzione a “I Sepolcri”, che le tombe sono la “Celeste corrispondenza d’amorosi sensi” e “sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna”; e sebbene tanti grandi non abbiano ricevuto degna sepoltura (Parini, il cui corpo magari giace mischiato a quelli di infami che hanno lasciato la vita sul patibolo e, ancora Leonartdo e Mozart, e, per entrambi, per motivi ancora non chiariti), è dovere degli uomini reclamare per ciascuno un luogo di pietà in cui essere ricordato.
Scrive l’immortale poeta di Zante che: “ A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti…”, aggiungendo alla forza che unisce vivi e morti, nella sacralità giuridica e religiosa che realizza concretamente la stessa pietà umana, la contemplazione delle tombe, insieme alla meditazione delle gesta compiute dai grandi personaggi che lì hanno trovato l’estremo riposo, perché è in questo modo che l’uomo può ricevere per ben agire ed operare e le tombe diventano il simbolo di una umanità pienamente realizzata.
Califano, il poeta popolare e popolano, l’uomo che amava scrivere sms di notte, lanciare note d’affetto nel silenzio della Luna e nel chiasso della malinconia dell’anima, ora se ne sta solo, smemorato, dissolto in un luogo senza nome, con la città che gli piaceva, autentica e senza filtri, sognatrice ma disincantata, che dopo aver fatto la fila sulle scalinate della sala della Protomoteca per lanciare un ultimo saluto, l’ha dimenticato in un loculo di Ardea, su una rocca tufacea, in vista delle propaggini occidentali dei Colli Albani, le cui origini si legano alla sbarco di Enea e la fondazione legata al mitico figlio che Odisseo ebbe da Circe, anche lei dimenticata, dopo un violentissimo amore.
Carlo Di Stanislao
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