Tra oggi e domani si attende il verdetto di una Cassazione che, in modo chiaro, intende giudicare un imputato e non un leader politico e non ha alcuna intenzione di sostituirsi al Parlamento o ai partiti.
Ma Berlusconi ed i suoi, naturalmente, la gettano già in politica, col primo che afferma che se sarà condannato andrà in carcere ed i secondi che dichiarano che il processo a B. equivale al processo a ai 10 milioni che lo hanno votato e che, in caso di condanna, si dimetteranno dal Parlamento.
Da cinque toghe di cui nessuno conosce gli orientamenti politici dipende il futuro politico immediato del Paese, ma loro intendono decidere in piena libertà e senza tenerne conto.
Feltri su Libero scrive che Berlusconi va salvato, altrimenti per l’Italia sarà tragedia, ma c’è chi dice che il Cavaliere ha già fiutato il colpo mediatico di guidare l’opposizione dal carcare e ritornare così a dominare, come un monarca assoluto, la scena politica.
Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all’Università Luiss di Roma, autore, per Marsilio, del saggio: “Il berlusconismo nella storia d’Italia”, è convinto che B. non farà nulla anche se condannato, che continuerà nella direzione del basso profilo di chi a più a cuore il Paese che se stesso, perché il suo splendore è agli sgoccioli dal 2006 e perché lo attendono le grane di Ruby e Di Gregocio, che non sono di poco conto.
Ma attenti a considerarlo finito il Cavaliere, che ha ancora respiro sufficiente per un lustro e magari, poi, passerà il testimone alla dotattissima (di senso politico si intende), figlia Marina.
Scrive nel suo saggio Orsina, che a chi finora ha spiegato il successo del berlusconismo esclusivamente come una miscela fortunata di “potenti mezzi” (mediatici) e “popolo bue” (votante), occorre suggerire di non dimenticare l’ “emulsione di populismo e liberalismo” che è alla base del fenomeno, ne costituisce lo “spessore” politico ed è “causa non ultima” della sua affermazione. Analizzando infatti i principali discorsi del leader del centrodestra, a partire dalla nota frase “L’Italia è il paese che amo” del 1994, lo studioso mette in luce che “prima di lui, dal Risorgimento a oggi, nessun leader politico di primo piano, capace di vincere le elezioni e salire alla guida del governo, aveva mai osato dire in maniera così aperta, esplicita, sfrontata, impudente che gli italiani vanno benissimo così come sono”.
Se il berlusconismo è stato a lungo elettoralmente vincente, lo si deve soprattutto al fatto che “il Cavaliere è stato un politico dello scetticismo dentro una storia segnata dalle politiche della fede”, secondo la dicotomia di Michael Oakeshott, il quale ricordava che la prima ritiene di avere un’idea chiara della distinzione del bene e del male, pensa di poter dirigere i processi storici e ritiene che l’attività dei governo debba essere messa al servizio dell’umanità, mentre la seconda non persegue in alcun modo la perfezione, ritiene che la politica sia necessaria solo a regolare le interazioni umane per evitare che esse degenerino in conflitti, con gli individui che restano gli unici a potersi impegnare – se lo vogliono – per cercare la perfezione.
E scegliendo la seconda via, Berlusconi ha dimostrato di capre un fatto fondamentale: il popolo è meno bue di quel che si crede e, alla fine, ha solo votato a chi lo riflette, promettendo stati meno intrusivi e salvaguardia di furbate ed egoismi.
Ma, invece di doversi ridurre a mandare i giudici a fare un lavoro non loro ed ora di essere preoccupati, le opposizioni avrebbero dovuto impegnarsi a dimostrate (nel corso di venti lunghi anni di guerra solo giudiziaria), che anche se il berlusconismo ha avuto successo, non ha funzionato, avendo in fondo screditato due opzioni storiche che per l’Italia avrebbero potuto, e forse potrebbero ancora rappresentare delle risorse preziose: la democrazia maggioritaria bipolare da un lato e l’attenuazione della pressione ortopedica e pedagogica dello stato sulla società dall’altro.
Ma questo non è avvenuto, sicché, comunque vada, fra oggi e domani in Cassazione, berlusconiani e antiberlusconiani avranno ben poco da festeggiare.
E ben poco da stare allegra ha l’Italia tutta, anche se con trend in crescita più del resto d’Europa in questo luglio atipico per temperature climitiche e non, quando Marchionne, nella tradizionale conference call con gli analisti per rispondere alle domande sullo stato di salute dell’azienda, rafforza le dichiarazioni fatte alla Sevel di Atessa subito dopo le motivazioni della sentenza che ha riconosciuto incostituzionale l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori e detto che: ”Se le condizioni in Italia restano quelle attuali, è impossibile gestire bene le relazioni industriali. Anche se ci impegnassimo sugli investimenti, sarebbe un impegno vuoto. Abbiamo chiesto con urgenza al governo di varare delle misure che rimedino a questo vuoto ma per ora non vediamo niente. Stiamo cercando di capire le implicazioni della sentenza per le nostre attività in Italia. Incontreremo anche il sindacato al centro di questo contenzioso, vedremo il risultato”.
“Ci sono tante alternative, siamo una compagnia globale”, ha detto il numero uno di FIAT ed aggiunto che rimane “open minded”, senza peregiudizi, ma se dovesse scegliere con la testa invece che col cuore, dovrebe portare via la FIAT dall’Italia.
Matteo Orfini, classe 1974, uno dei leadfer dei “giovani turchi”, rimprovera a Fassino un silenzio imbarazzante alle parole di Marchionne ed aggiunge che questo silenzio è frutto di una vera e propria sudditanza culturale all’egemonia neoliberista che porta certa sinistra a “sacrificare sul totem della crisi la nostra storia e i nostri valori” e, per quanto concerne Fiat, “significa respingere l’idea, francamente risibile, che produttività ed efficienza siano correlate alla durata delle pause per la pipì degli operai e non piuttosto a piani industriali, investimenti, qualità, modelli e strategie commerciali”.
Il lungo giorno italiano continua con la ministra Cecile Kyenge che, in conferenza stampa, ha chiesto un intervento al segretario della Lega Roberto Maroni affinché gli attacchi nei suoi confronti finiscano, parlando di “atteggiamenti non consoni a quella che per me è la visione del corretto rapporto tra persone e forze politiche”.
Le ha risposta Maroni dicendo che gli attacchi sono verso le idde e non le persone e che auspica che, come previsto, la ministra possa prendere parte, il 30 agosto, al confronto aperto con il governatore Zaia alla Festa della Lega Nord dell’Emilia Romagna a Milano Marittima.
Ieri, dopo la pubblicazione su Facebook di una foto che paragona il ministro dell’Integrazione ad un gorilla ad opera di un esponente del partito di Maroni, Cecile Kyenge, ospite di una seduta del Consiglio comunale di Cantù su invito del sindaco Claudio Bizzozero, aveva a ricevuto l’ennesima offesa: prima che fosse accolto nell’aula, i due consiglieri della Lega Nord Alessandro Brianza e Edgardo Arosio, con l’ex leghista Giorgio Masocco, sono usciti per protesta.
Ed il festival dell’insulto continua, col deputato della Lega Nord Gianluca Buonanno che in un intervento alla Camera, parlando “in difesa delle giovani coppie eterosessuali”, ha accusato Sel di rappresentare la “lobby dei sodomiti” e chiamato il partito “sodomia e libertà”, con i deputati che fanno riferimento a Nichi Vendola che sono usciti per protesta.
Anche il destrorso Feltri si dice estenuato ed indignato e dalle pagine del Giornale, qualifica di “sempliciotti” » i leghisti della base, di “tentativo patetico di essere spiritoso” il “ruspante” Calderoli, e di “personaggi oscuri” che si segnalano per “bassezza e cafonaggine” i lanciatori di banane.
Continuano i giorni lunghi e grigi di Padre dall’Oglio, il gesuita scomparso in Siria, visto per l’ultima volta venerdì scorso a Raqqa, città siriana controllata dai ribelli legati ad al-Qaeda, che sui fanno chiamare ‘Stato Islamico dell’Iraq e del Levante in Iraq’, conosciuto per essere contrario al regime di Damasco, stato espulso dal Paese dove viveva da 30 anni e dove era rientrato passando nelle zone controllate dagli insorti, di cui fanno parte gruppi sunniti integralisti.
Mentre nessuna notizia ufficiale viene dal nostro Ministero degli Esteri, un amico del religioso apre uno spiraglio di speranza, dichiarando a Repubblica: “Sicuramente è accaduto qualcosa, ma non è certo che si tratti di un rapimento”. Secondo quanto dichiarato alla ong Aiuto alla chiesa che soffre, la fonte – che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonima – padre Dall’Oglio doveva incontrarsi con alcuni membri del gruppo affiliato ad al-Qaeda per negoziare la liberazione di un membro di un gruppo dell’opposizione, amico del religioso italiano, sicché, il suo silenzio, “potrebbe essere legato ai tempi e alle modalità della contrattazione e non ad un sequestro”.
Lunghi e difficili anche i giorni dei due nostri marò ancora detenuti in India, con un piccolo spuiraglio che si intravede nelle parole del nostro viceministro degli esteri, il quale ha spiegato a La Stampa: ““Il tipo di accordo che esiste, rispetto alla possibilità di scontare pene nelle rispettive patrie ci mette in condizione di relativa tranquillità”.
“Dopo alcuni mesi un po’ erratici all’inizio di questa vicenda – ha aggiunto Pistelli -, con una serie di piste parallele e un po’ pasticciate, adesso la situazione si è riallineata negli ultimi mesi sui binari corretti. Confido che questo autunno la vicenda verrà chiusa. Spero con il riconoscimento di innocenza, ma non vorrei fissare l’asticella troppo alta”.
Ed anche se è troppo sperare nella immediata scarcerazione dopo 24 mesi di detensione in attesa di processo per Bradley Manning, il soldato di venticinque anni che quasi tre anni fa ha passato a Wikileaks 700mila documenti riservati , fa tirare un sospiro di sollievo il fatto che non sia stato giudicato colpevole di aiuto al nemico – la più grave delle accuse che il governo americano gli ha rivolto – e per questo non sarà condannato all’ergastolo.
La corte militare di Fort Meade lo ha assolto dall’accusa di collaborazione con il nemico, ma lo ha condannato per altri 19 capi d’imputazione, tra cui spionaggio, furto, frode informatica e violazione delle leggi militari.
La sentenza comunque è stata criticata da Julian Assange, fondatore di Wikileaks, che l’ha definita “un precedente pericoloso” e una prova “dell’estremismo della agenzie di sicurezza”.
Manning, per alcuni un eroe per altri un traditore, è il classico prototipo della talpa, che e rifiuta non soltanto il relativismo, ma rifugge qualunque rappresentazione morale in cui compaiono sfumature di grigio, poiché il suo è un mondo manicheo fatto di due poli opposti e quando il male si confonde con il bene il sistema va in cortocircuito.
Da decenni gli psicologi americani studiano le leve mentali che muovono i propalatori di segreti a rompere le righe, rischiando carriera, sicurezza economica, legami famigliari e talvolta la libertà in nome di un bene giudicato incommensurabile: l’additamento delle pubbliche malefatte. Nel 1989 un team di ricercatori guidato da Philip Jos, professore di scienze politiche all’università di Charleston, ha condotto un esame sistematico su oltre 160 whistleblower – per la maggior parte impiegati del governo – per farne una radiografia psicologica e scovare quel comune denominatore che invece non compare nelle migliaia di colleghi che sanno e tacciono, dunque secondo la tavola di valori della talpa sono coautori del male. L’animosità verso l’istituzione o azienda alla quale aveva giurato fedeltà entra in scena un attimo dopo la convinzione che la pubblicazione è un bene “per gli altri”. Il whistleblower, poi, non è tipo da fare un calcolo costi-benefici, ché la teoria morale su cui poggiano le sue valutazioni ha a che fare con i diritti inviolabili ed eterei più che con un sistema fatto di delitti e castighi.
Un esempio paradigmatico è quello offertoci di recente da Edward Snowden, l’uomo che ha svelato al mondo l’esistenza di un massiccio programma di sorveglianza delle comunicazioni guidato dalla National Security Agency, che si incastra perfettamente psicologica del whistleblower e che, non a caso, si è rivolto ai suoi responsabili per denunciare ciò che gli appariva illegale o immorale prima di contattare il giornalista-attivista del Guardian Glenn Greenwald.
Analoghi motivi spinsero il celebre “corvo” a rivelare i segreti del Vaticano, con una intricata vicenda (chiamata Vatileaks), in cui comparivano presunti “complotti” per uccidere Benedetto XVI, scontri furibondi sul controllo dell’Istituto Toniolo (la cassaforte dell’università Cattolica), passando per i documenti sul caso Boffo pubblicati da Gianluigi Nuzzi nel suo libro “Santo Padre” e frutto del malcontento e della critica al cardinal Bertone, degnissima persona e altrettanto degno ecclesiastico, ma che non sempre ha incontrato il favore dei diplomatici e dei plenipotenziari vaticani.
Carlo Di Stanislao
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