Tan Zuoren, blogger cinese di 56 anni, è stato condannato, in appello, a 5 anni di detenzione, da un tribunale di Chengdu, nella provincia cinese del Sichuan. La condanna si basa su un articolo pubblicato sul suo blog, nel quale viene criticata la repressione del movimento studentesco del 1989 e il massacro di piazza Tiananmen. Ma le organizzazioni umanitarie ritengono che Tan sia stato colpito anche per aver denunciato le responsabilita’ dei costruttori nella tragedia del terremoto del 2008 (vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Tan_Zuoren). I genitori delle vittime denunciano che le autorità colpiscono con minacce e il carcere, chiunque voglia accertare le responsabilità per quelle morti. La condanna di Tan, in primo grado, nel febbraio scorso, a seguito di un proceso, che Amnesty Interbnational ha definito “gravemente iniquo”, iniziato il 12 agosto del 2009. In quella occasione l’avvocato di Tan non ha potuto convocare in aula i testimoni della difesa e uno di questi, l’artista di fama internazionale Ai Weiwei, è stato trattenuto della polizia e picchiato fino alla fine dell’udienza in cui avrebbe dovuto deporre. Due giornalisti che intendevano seguire il processo sono stati trattenuti in albergo, con la scusa di una perquisizione per droga. La comunicazione del verdetto è stata rinviata per mesi. La moglie di Tan, Wang Qinghua, ha detto ad Amnesty International: “Un solo giorno di carcere sarebbe stato troppo. Mio marito ha solo esercitato il diritto alla libertà d’espressione”. La signora Pu Zhiqiang. Moglie di Tan, raggiunta al telefono, ha commentato la nuova sentenza di condanna, dichiarando: “il processo non è durato che dodici minuti e si è chiuso con la conferma del verdetto di primo grado”. Stando ai tweet dei presenti, uscendo dall’aula Tan Zuoren avrebbe commentato: “Essere imprigionato per il bene del mio popolo è per me un onore”. Secondo la legge, Tan ha ancora diritto di fare nuovamente appello, ma questo diritto è di fatto negato da verdetti già scritti in anticipo. Ieri, 8 giugno, un White Paper, ovvero una Carta ufficiale contenente, nella fattispecie, istruzioni e chiarimenti sull’uso di Internet, è stato diramato dal governo cinese. Pechino elogia la Rete, per la facilità e la velocità con cui permette di accedere alle informazioni, migliorando la vita della popolazione cinese, ma riafferma la necessità da parte del governo di controllarne l’utilizzo. E’ il primo documento ufficiale dopo l’ondata di polemiche che ha investito il grande stato asiatico in merito alla censura di Google. A fronte di tutto, però, il Documento cita la necessità da parte del governo di impedire che Internet venga usato in modo inopportuno, giustificando laddove necessaria la censura. In particolare, lo sforzo è volto a impedire che sia messa a repentaglio la sicurezza nazionale e dei minori. Da qui scaturisce l’invito agli ISP (Internet Service Provider) di assumere un atteggiamento di responsabilità. Se infatti la Cina è una delle popolazioni più numerose al mondo a utilizzare Internet, è anche uno dei Paesi a disporre dei più sofisticati sistemi di filtraggio. I rigidi controlli che il governo esercita sul Web, che partono dalla ragione di voler bloccare contenuti pornografici e violenti e che sono estesi anche ai social network come Facebook e Twitter e a YouTube, non sono destinati ad allentarsi. Infatti, sostiene il documento, “una protezione efficace della sicurezza Internet è una parte importante delle procedure amministrative del governo e una prerogativa imprescindibile per la tutela della sicurezza dello Stato e dell’interesse pubblico”. La gestione del Web deve essere messo in pratica continuamente dal governo cinese, che si propone di migliorare notevolmente il suo ruolo di amministratore: “leggi e regolamenti – continua il documento – su cosa può o non può essere divulgato on-line, come contenuti che incitano all’odio etnico o alla secessione, alla pornografia e al terrorismo, sono adattabili alle nostre con dizioni e in linea con le pratiche internazionali”. Numerose critiche sono di nuovo pervenute soprattutto dal mondo occidentale: la definizione di ciò che può o non può essere divulgato in rete è talmente vaga e aperta a interpretazioni che il governo stesso può usare le sue leggi contro chiunque manifesti dissenso. A tal proposito, il “libro bianco” si conclude con un totale rigetto da parte delle autorità cinesi di qualsiasi forma di critica verso il suo operato al riguardo: “all’interno del territorio cinese, – si legge in conclusione del documento – Internet è sotto la giurisdizione della sovranità cinese, che deve essere rispettata e protetta”. Quanto accade in Cina deve costituire un monito per chi sostiene la “legge Bavaglio” del Ministro Maroni o per chi non comprende il disegno complessivo di un governo che intende togliere libertà a giornalisti ed editori. Ed ancora c’è chi si pone la domanda se poi la libertà dei giornalisti sia uguale a quella degli utenti del we, e se valga la pena sbattersi e indignarsi, visto che la vicenda sembra “una cosa della politica”. Io credo che si debba. Cerco di dirlo in poche parole, io che di solito sono prolisso. Si potrebbero citare molte norme, approvate in questi anni o allo studio, per motivare questa adesione dei cittadini elettronici. Ma dovrebbe bastare questo pensiero: che “loro”, da anni si pongono il problema di sottrarre agli individui la capacità di esprimersi.
Carlo Di Stanislao
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