L’Italia sta andando a rotoli, con un debito “mostre” ed in continuo aumento, disoccupazione in crescita, investimenti per giovani, ricerca e welfare soggetti a continue sforbiciate ed un governo che s’impegna quasi esclusivamente su decreti ad personam. Ed ora, dopo l’accordo per Pomigliano fra Fiat e Uil e Cisl, con l’aggravante di una vera e propria infrazione di tutte le regole e le garanzie costituzionali dei lavoratori: niente diritto di sciopero, pause ridotte, obbligatorietà di straordinario, tutela sanitaria ridotta all’osso.La piattaforma Fiat contiene più di un vulnus, a cominciare dalla clausola che punisce con sanzioni sia i lavoratori che i sindacati che ricorrano allo strumento dello sciopero. Una norma, dicono vari giuristi interpellati, che non può reggere al fuoco dell’applicazione. Eppure Sacconi e Tremonti definiscono un miracolo il nuovo contratto, che in realtà è solo l’attuazione formalizzata di un ricatto nei confronti di poveracci che temono di perdere uno straccio di lavoro, come è accaduto, dopo molte inutili chiacchiere, a Termini Imerese. Gravissima anche la norma sulla malattia, o quella che impone il recupero della produzione perduta per cause esterne nelle pause. In casa Cgil non ci stanno, poichè sanno bene che l’accordo su Pomigliano è un precedente fortissimo per aprire la strada alle intese in deroga allo Statuto dei Lavoratori (e parlando di sciopero, in deroga alla Costituzione), preconizzate dal ministro Maurizio Sacconi come l’avvio verso un ammodernamento dei rapporti industriali che, evidentemente, vuol dire nessuna garanzia per lo schiavo-dipendente e nessun grattacapo per chi comanda e spartisce dividendi. Sul tema è intervenuta ieri anche la Marcegaglia, già in odore di ministero anche se prudentemente rifiutato, che ha dichiarato, secca e serafica, “spero nella Fiom prevalga senso di responsabilità e si possa procedere con l’investimento”. Plaude la signora di Confindustria all’operato di Marchionmni che “fa l’opposto degli altri e richiama dalla Polonia degli investimenti”, senza dire la verità: la base contrattuale è tale da rendere quel pezzo d’Italia più disagevole o comodo (a secondo dei ruoli), della stessa Polonia. La Fiom è l’unico sindacato che non ha firmato la proposta d’accordo del gruppo torinese per mantenere la produzione di auto a Pomigliano, dichiarando di non poter sottoscrivere un documento che punta alla saturazione degli impianti attraverso 18 turni di lavoro, riduzioni delle pause e aumento degli straordinari, perché contiene sanzioni fuori dalle norme di legge e del contratto. La Fiom dubita anche che la proposta della Fiat possa essere sottoposta a referendum, ma si dice, come Epifani, “assolutamente disponibile a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti ha assunto a Pomigliano caratteristiche intollerabili”. Oggi il documento su Pomigliano sarà discusso a Roma tra i rappresentanti della Fiat e dei sindacati di categoria. Senza il via libera della Cgil il sì di Fim-Cisl, Fismic, Ugl e Uilm potrebbe essere ritenuto non sufficiente da Marchionne che, pare, abbia in tasca anche un “piano B”, che comunque, se attuato, segnerebbe non solo una sua sconfitta, ma una sconfitta di tutta una strategia volta alla liberalizzazione selvaggia e senza regole nel mondo del lavoro. Ieri, parlando a Benevento, Gianfranco Fini ha detto su Pomigliano: “se fosse stato detto ai lavoratori rinunciate ai diritti, io avrei replicato i diritti acquisiti non si toccano e avrei cercato nuove soluzioni nella linea della concordia tra capitale e lavoro del secolo scorso, secondo quanto sia la dottrina sociale della Chiesa che quelle tipiche del pensiero Nazionale, hanno prodotto”. Ma evidentemente, nella destra di oggi, lui resta il solo a parlare di retaggio, etica, diritto dei lavoratori e ricerca di reciproca concordia e soddisfazione. Una nata a margine. Ancora una volta è la Fiat ha creare regole dubbie e preoccupanti scelte in Italia, come in passato circa le autostrade ed il traffico su gomma, invece che su rotaia o via mare e con sempre il governo (di vario colore) a sostenerla. Aveva ragione Tommaso De Alessandri, Vice-Sindaco di Torino, quando, su Repubblica il 31 marzo scorso, dichiarava: “L’ Italia non è più il mercato della Fiat ma solo uno dei suoi mercati e i destini dell’ una e dell’ altra non sono più inestricabilmente legati come lo erano in passato. Un tempo la Fiat o stava qui o falliva ora può scegliere. E’ quello che farà, dopo aver messo l’ Italia alla prova: non a Termini Imerese, il cui destino è segnato, ma a Pomigliano, dove Marchionne ha deciso fare la scommessa più difficile”. Un fatto è certo: da Pomigliano, nel 2008, sono uscite 76.500 auto, mentre nel 2009 solo 36.000, con un utilizzo della manodopera del 32 per cento, ma non per colpa degli operai, ma per il fatto che i modelli lì prodotti non erano coperti dagli incentivi. Occorre adesso trovare il modo di far lavorare quegli uomini e quei macchinari come a Melfi, dove l’ utilizzo arriva al 93 per cento o almeno come a Mirafiori dove tocca l’ 85 per cento; ma senza abrogare ai diritti minimi che trasformino le maestranze in marre di schiavi senza diritti e da sfruttare. A Marchionne tocca ricordare (ma anche a Sacconi, a Tremonti e alla Marcegaglia), che la gente non dimentica che il sistema, comprese molte delle cose che non funzionano, è stato disegnato per decenni intorno alla Fiat e che da noi non si sono affermate altre grandi aziende manifatturiere, ma si è fatto in modo che la Fiat fosse la sola torre che svetta tra le tante medie e piccole e che può di volta in volta, imporre, ricattare e scegliere. Insomma, in attesa che si affermi da noi l’idea di sviluppare forme di produzione di beni e servizi fuori mercato, con commercio equo, finanza etica, agricoltura biologica, produzioni verdi, cooperative sociali, produzioni culturali, editoria alternativa; dovremmo almeno far si che non sia la Fiat, ma l’Italia a scegliere. Tutelare il lavoro è l’esigenza più immediata, ma questo senza piegarsi a vili ricatti. Servono p nuovi strumenti per condizionare le strategie delle imprese come l’attuazione del modello tedesco di partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nella direzione delle stesse (vedi a tal proposito: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Lavoratori-nel-board-dell-impresa-Discutiamone). Politiche industriali, contratti comuni per i lavoratori delle multinazionali nei diversi paesi, vincoli sulle delocalizzazioni all’estero, un ruolo di consultazione del sindacato sembrano strade più incisive e percorribili per difendere il lavoro e orientare le strategie industriali, che ricorrere a “miracoli” in cui il lavoratore non conta più nulla.
Carlo Di Stanislao
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