Il libro è stato presentato a Torino il 1° maggio scorso da Padre Lombardi e Massimo Cacciari, con lui, il settantenne priore di Bose con una vocazione racchiusa nell’etimo, unico, il gaddiano chicco individuo “non appiccicato ai compagni”, irriducibile alle consorterie”, che seguiva con volto incredulo il dipanarsi dei meriti attribuitigli dai due relatori, con la sua mutria alfieriana, e la tenacia di voler restare un semplice cristiano, laico come lo sono i monaci, come lo furono Pacomio, Benedetto, Francesco d’Assisi, senza garanzie ecclesiastiche, inessenziale nella Chiesa, affascinato dal detto di sant’Antonio: “Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà”. “La sapienza del cuore. Un omaggio ha Enzo Bianchi” è un “Liber amicorum” che da un lato esprime gratitudine per quanto la persona ha significato e significa e, d’altro lato, approfondisce e invita a nuove discussioni su alcuni temi che attraversano e accompagnano la vita di ciascuno di noi. Edito da Einaudi, ci racconta un uomo straordinario e della contemporaneità, “chiamato a vivere in Cristo una vita di fraternità con uomini e donne, senza estasi mistiche e senza idillio”, le cui attività e riflessioni spaziano dal mondo ecclesiale a quello ecumenico, monastico, sociale, culturale e artistico. Filo rosso della raccolta sono le parole chiave della sua riflessione: dal pregare la Parola, alla vita monastica, alla differenza cristiana, al pane di ieri, al vivere la morte. Riflessioni personali che sono diventate ben presto patrimonio di tutti. Tra queste pagine, come in uno scaffale di un’ideale biblioteca, teologi, filosofi, giuristi, scrittori, artisti, semplici uomini e donne di chiesa si confrontano con lui in un dialogo ininterrotto utilizzando ciascuno il mezzo letterario più consono a esprimere i propri sentimenti. Ne viene fuori il ritratto di una laicità positiva che permette al credente di manifestare pubblicamente la propria etica e di dare un contributo al dibattito politico, ma a condizione che le gerarchie ecclesiastiche restino fuori dalla da essa, perché alla gerarchia spetta solo il compito profetico, mentre ai laici quello pratico e tecnico, e sottoposto alle regole della democrazie. Ed ancora la convinzione che il problema di oggi è l’assenza di Dio, la dostoevskijana impossibilità di dare amore, persi dietro la tentazione di procurare il male, senza alcuna idea di resurrezione, certezza di un ri-saremo, in cui nessuno più crede.
È una corteccia il volto di Enzo Bianchi, un’icona affilata, tersa, scolpita e la sua opera quella di una sentinella a cui domandare “a che punto è la notte?”, ottenendo in risposta la Parola tornita nel silenzio, l’unguento che è, depurata di ogni incenso e di ogni accomodamento al qui e ora, così come in un suo adagio che ha fatto incidere a Bosse: “Sopra una quercia c’era un vecchio gufo: più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva”.
E’ un laico credente armato di parole autentiche Enzo Bianchi ed insieme uno che sa che il vero volto di Dio è nel silenzio che è la “metafisica” del creato, il vero sfondo su cui articolare il nostro dialogo con Lui. Se nella nostra società “l’uomo è diventato un’appendice del rumore”, come scriveva Max Picard), si fa sempre più urgente l’esigenza che ciascuno ritrovi la propria umanità attraverso la riscoperta del silenzio e l’apprendimento dell’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”. Impresa certo non semplice, se già Eraclito definiva i propri simili come “incapaci di ascoltare e di parlare”: da allora forse abbiamo l’impressione di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma certo quanto ad ascolto sembriamo tornati indietro di secoli.
Ci ricorda il priore che abbiamo bisogno di una pedagogia dell’ascolto che può prendere le mosse solo dal silenzio., perché “ascoltare il silenzio” non è un ossimoro, ma la chiave che apre il mondo dell’ascolto autentico e della comprensione di ciò che si sente.
Il silenzio è custode dell’interiorità in quanto ci conduce da una dimensione primaria e “negativa” di sobrietà, disciplina nel parlare o addirittura di astensione da parole, a un livello più profondo, di intensa vita spirituale: cioè al far tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni, i giudizi, le mormorazioni che nascono nel cuore.
È il difficile silenzio interiore, quello che trova il proprio ambito vitale nel cuore, luogo della lotta spirituale. Ma proprio questo silenzio profondo genera l’attenzione, l’accoglienza, l’empatia nei confronti dell’altro.
Il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’alterità, per farne risuonare la parola e, al tempo stesso, ci dispone all’ascolto intelligente, al parlare misurato, al discernimento di ciò che brucia nel cuore dell’altro e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello. «Il silenzioso diventa fonte di grazia per chi ascolta», aveva affermato san Basilio. Per il cristiano, il rimando all’ascolto obbediente della Parola di Dio, all’accoglienza del Verbo fatto carne è evidente ed estremamente eloquente.
Non a caso è questo il silenzio che proviene a noi da una lunga storia spirituale: è il silenzio cercato e praticato dagli esicasti per ottenere l’unificazione del cuore, il silenzio della tradizione monastica finalizzato all’accoglienza in sé della parola di Dio, il silenzio della preghiera di adorazione della presenza di Dio. Ma è anche il silenzio caro ai mistici di ogni tradizione religiosa e, ancor prima, è il silenzio di cui è intriso il linguaggio poetico, il silenzio che costituisce la materia stessa della musica, il silenzio essenziale a ogni atto comunicativo. Il silenzio, evento di profondità e di unificazione, rende il corpo eloquente conducendoci ad abitare il nostro corpo, a nutrire la nostra vita interiore, guidandoci a quell’habitare secum così prezioso per la tradizione monastica come per quella filosofica. Il corpo abitato dal silenzio diviene rivelazione della persona intera.
Va riletto, dopo questo libro su Bianchi, “Dell’uomo nobile. Trattati” di Meister Eckart (edito da Adelphi), con i quattro trattati raccolti – “Istruzioni spirituali”, “Del distacco”, “Il libro della consolazione divina” e “Dell’uomo nobile” – che attingono alla grande tradizione medievale, da Origine ad Agostino ad Avicenna, ed introducono al percorso originalissimo di Eckhart, proteso all’evento unico della Nascita: la nascita eterna di Dio nel fondo silenzioso dell’anima. La virtù suprema che dispone l’anima a tale evento è il distacco che, svuotando il pensiero di ogni contenuto, obbliga Dio a scendere in noi con la necessità di una legge fisica, allo stesso modo in cui un liquido viene attratto in un contenitore vuoto – giacché “essere vuoto di ogni creatura è essere pieno di Dio, ed essere pieno di ogni creatura è essere vuoto di Dio”. E, come ammonisce Eckhart con quel forte, incandescente gesto che fa vibrare dalle fondamenta il linguaggio dei trattati: “Nulla sa più del fiele del soffrire, e nulla sa più del miele dell’aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla davanti a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto. Il più saldo fondamento su cui può sorreggersi questa perfezione è l’umiltà, giacché lo spirito di colui la cui natura striscia quaggiù nella più profonda bassezza, si innalza in volo verso le supreme altezze della Divinità”. Chi realizza dunque questo distacco è ‘l’uomo nobile’ di cui parla il Vangelo: come la Grande Aquila di Ezechiele, egli sale verso il Regno al di là delle forme e delle immagini e ne prende possesso, per riportarne sulla terra il nocciolo prezioso e indistruttibile.
Ed uomo nobile, anzi mobilissimo, è Enzo Bianchi, con il suo silenzioso, eloquente candore.
Carlo Di Stanislao
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