“Con l’aiuto di Dio, questa strada ci porterà all’unità e non alla divisione, non all’odio tra fratelli ma all’amore incondizionato”(Ariel Sharon). Se è vero che “tra i Paesi europei l’Italia spicca per il suo impegno di Memoria e nella lotta contro ogni forma di odio, razzismo e antisemitismo: un risultato importante che è bene affermare con soddisfazione ferma restando, in tutti noi, la preoccupazione e la stretta vigilanza per l’insorgere di nuovi veleni a livello continentale e in questo stesso Paese”, come afferma il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna alla vigilia del Giorno della Memoria della Shoah 2014, allora è un dovere commemorare l’ex premier israeliano Ariel Sharon scomparso Sabato 11 Gennaio 2014, a 85 anni, dopo poco più di 8 anni di coma. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi dieci giorni, quando i medici avevano avvertito che i suoi organi vitali stavano cedendo in seguito ad un blocco renale dovuto ad un’infezione cronica. Il Leone e la Colomba d’Acciaio di Israele si è spento verso le ore 14 locali all’ospedale Sheba vicino Tel Aviv dov’era ricoverato. Il “bulldozer” com’era soprannominato dagli israeliani mentre i palestinesi lo chiamavano “butcher” (macellaio) era in coma dal 4 Gennaio del 2006 in seguito ad una grave emorragia cerebrale accusata due settimane dopo il lieve ictus del 18 Dicembre 2005 da cui si era rapidamente ripreso. In quei mesi era impegnato a lanciare il nuovo partito centrista Kadima e ad avviare la propaganda elettorale in vista delle elezioni politiche del Gennaio 2006. Ma il 4 Gennaio era stato colpito da un secondo ictus, molto più devastante, mentre si trovava nel suo ranch nel Neghev. All’ospedale Hadassah di Gerusalemme arrivò in uno stato di coma dal quale non si è più ripreso. In questi anni Sharon è stato assistito dai due figli, Ghilad e Omri, che hanno deciso di tenerlo in vita con una continua assistenza medica. Ma in tutto questo tempo non ha dato alcun segno di risveglio. Sharon, in verità, è uno dei giganti della storia israeliana e mediterranea. L’ex generale che fu per decenni protagonista di primo piano della scena politica israeliana, era da ormai quasi otto anni immobilizzato in una stanza di ospedale davanti allo schermo di un televisore sintonizzato sul National Geographic. Nel tentativo di aiutarlo ad uscire dal coma, i figli avevano pensato anni fa di farlo trasferire nel ranch familiare del Neghev. Due mesi fa Sharon è stato sottoposto ad un intervento chirurgico. Da allora le disfunzioni si erano moltiplicate e i medici sembravano impotenti e rassegnati. Da un mese era stato trasferito in rianimazione. Molti speravano che le sue condizioni si fossero stabilizzate. Ariel Sharon, già primo ministro dello Stato d’Israele, generale e combattente, è nato nel 1928 da genitori bielorussi a Kfar Malal, una comunità agricola nella Palestina del Mandato britannico. “Un bulldozer in guerra e in pace – lo ricorda il Jerusalem Post – indomito protettore di Israele”. Mentre era a capo del governo israeliano, la malattia lo ha strappato ai suoi connazionali. “Ariel Sharon era l’emblema della politica militare, audace, in evoluzione” – titola il Times of Israel. “Sharon, controverso leader militare, ebbe una lunga e tumultuosa carriera politica che culminò con il ritiro da Gaza” – osserva Haaretz. Come scrisse il New Yorker nel 2006, “Arik”, così era conosciuto da tutti, è l’uomo cui Israele guardava nei momenti più bui. La battaglia del 1967 in cui aveva condotto le truppe israeliane contro la roccaforte di Abu Agheila nel Sinai, è ancora oggi insegnata nelle accademie militari del mondo, finendo nelle memorie dei videogiochi e in una famosa “App” (J-Day War). Fu a Sharon che Israele si affidò durante la Guerra del Kippur del 1973 quando guidò i suoi soldati oltre il Canale di Suez, rompendo le difese egiziane. David Ben Gurion lo definì “il più grande comandante sul campo della storia di Tzahal”. La vita di Sharon fu segnata anche dalla tragedia personale. La prima moglie, Margalit, conosciuta quando lei aveva appena 16 anni e sposata dopo una fuga d’amore, morì in un incidente d’auto nove anni dopo il matrimonio. Cinque anni più tardi, loro figlio Gur si sparò accidentalmente mentre giocava, non visto, con un vecchio fucile del padre. Tema iniziale nel film Stargate. Sharon si era nel frattempo risposato con la sorella di Gali, Lily, come si legge nella biografia del marito “Ariel Sharon. A life: non si è mai ripreso da quello che è accaduto. Ha solo imparato a conviverci”. Per molti anni Sharon fu, per il mondo, il ministro della Difesa responsabile dell’invasione del Libano israeliana nel 1982 e di non aver impedito i massacri operati dalla falange cristiana maronita nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Poi nel 2000, quando rivendicò il diritto per gli Ebrei di recarsi sul Monte del Tempio, visitando lo spiazzo sopra il Kotel dove sorgono la Moschea della Roccia e la Moschea al-Aqsa, luogo sacro alle tre religioni monoteiste perché qui il nostro comune patriarca Abramo, obbedendo al comando di Dio, volle sacrificare il suo unico figlio Isacco, Sharon fu accusato di aver scatenato la seconda Intifada. In quei mesi di caos e sangue il primo ministro laburista Ehud Barak si dimise anche in seguito al fallimento dei negoziati di Camp David, con il rifiuto del leader palestinese Yasser Arafat dell’offerta di Israele che comprendeva anche ampie concessioni circa lo status dei quartieri arabi di Gerusalemme. Con le elezioni del 2001, alla guida del Likud, Sharon fu eletto Primo Ministro ottenendo il 62 percento dei voti contro il 38 percento di Barak. Era il periodo in cui in Israele vigeva l’elezione diretta del premier. In quello stesso anno Sharon aveva per la prima volta dichiarato che i Palestinesi avevano diritto a un proprio Stato. Come capo del governo, nell’Estate 2005, portò a termine il ritiro dagli insediamenti nella Striscia di Gaza, evento che rappresentò una svolta storica e sofferta nella storia e nella politica mediterranea dello Stato d’Israele. Pochi mesi dopo, Sharon annunciò l’abbandono del Likud che aveva contribuito a fondare nel 1973, per dar vita a un nuovo partito centrista, Kadima, che significa Avanti. Il 22 Settembre aveva parlato all’Assemblea delle Nazioni Unite dichiarando: “Sono qui di fronte a voi, alla porta delle nazioni, come ebreo e come cittadino del democratico, libero e sovrano Stato d’Israele, l’orgoglioso rappresentante di un popolo antico. Sono nato in Terra d’Israele, figlio di pionieri, gente che coltivava la terra e non cercava battaglie, che non era arrivata in Israele per spodestare i residenti. Se le circostanze non lo avessero richiesto, non sarei stato un soldato, ma un agricoltore, un agronomo. Il mio primo amore era ed è rimasto il lavoro manuale”. Le sue parole impressionarono per sempre il mondo. “Io, come qualcuno i cui sentieri della vita hanno condotto a essere un guerriero e un comandante in tutte le guerre d’Israele, oggi mi rivolgo ai nostri vicini Palestinesi chiamandoli alla riconciliazione e al compromesso per mettere fine a un conflitto sanguinoso e percorrere la via che conduce alla pace e alla comprensione tra i popoli. Considero questa la mia chiamata e il mio primo dovere negli anni a venire. La nostra dottrina è che non ci sono missioni che non si possono portare a termine”. Sono le parole di Sharon che i giovani Palestinesi hanno il dovere di imparare a scuola, al lavoro e in famiglia, dal momento che le loro libere istituzioni nascenti vengono finanziate dall’Unione Europea. Con la guida di Sharon anche la pace non avrebbe certamente fatto eccezione. Qualcuno deve ricordarlo ai giovani di Gaza che oggi bruciano le foto di Sharon. Ma nei primi giorni del 2006, con Kadima che era data in nettissimo vantaggio nei sondaggi per le elezioni che si sarebbero svolte da lì a poco, ecco giungere la tragedia e gli otto anni di coma. Chi sarà capace di essere l’erede di Ariel Sharon? È stato fin dalla Guerra d’Indipendenza nel 1948 un valoroso soldato e negli ultimi anni della sua vita, un militante per la pace coi Palestinesi che oltraggiano le sue foto! Nessuno può dimenticare che si deve a Sharon l’evacuazione unilaterale di circa 10mila coloni Ebrei e delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza. Oggi un milione e mezzo di Palestinesi sono autonomi, regolarmente finanziati dall’Unione Europea, anche se tale autonomia non li ha portati alla ragione ed alla calma nei confronti di Israele. Nel campo politico la creazione di Sharon, il partito Kadima, è quasi scomparso passando dai 40 seggi di allora ai 2 di oggi. Amici ed avversari politici sono concordi nel ricordare Sharon come un grande uomo politico che anche dopo la sua scomparsa potrebbe indicare la strada giusta ai suoi successori. “Mi sia permesso un ricordo personale – scrive il diplomatico Sergio Minerbi – ho conosciuto Arik Sharon quando egli era Ministro dell’Industria e io ero preposto alle questioni economiche al Ministero degli Esteri. La sua stima per i diplomatici era molto scarsa, ma cominciò a migliorare quando gli parlai delle pecore di razza Awassi. Sharon le allevava nella sua fattoria poco lontana dal kibbutz Ruhama, dov’ero stato una decina di anni. Gli raccontai quanto avevo appreso all’Istituto Volcani sulla possibilità di far avere a quelle pecore, dei gemelli. Fu molto sorpreso di parlare con un diplomatico che capiva qualcosa sulle pecore. Nel 1985 lo accompagnai in un periplo europeo e in Francia stavamo per incontrare la signora Edith Cresson, ministro del Commercio Estero. Prima dell’incontro impiegai circa un’ora in albergo per spiegare a Sharon le questioni doganali che sorgevano con la costituzione del Mercato Comune Europeo. Ascoltò con attenzione e condusse la delegazione israeliana dalla signora ministro. Sharon iniziò la conversazione e dopo qualche minuto disse con franchezza: ‘Passo la parola a Minerbi, che conosce bene queste questioni’. A quanto pare le mie spiegazioni non lo avevano convinto”. Sharon da militare ha avuto un ruolo decisivo nelle vittorie di Tel Aviv durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e in quella dello Yom Kippur nel 1973, tanto che fu soprannominato “Arik, re di Israele”. Anche la cinematografia italiana affrontò coraggiosamente l’arduo tema. Diventato politico da ministro della Difesa, nel 1982, supervisionò la guerra del Libano e fu costretto a dimettersi nel 1983. Dal 1990 al 1992 ricoprì la carica di ministro delle Abitazioni, nel 1998 fu ministro degli Esteri, nel 2001 divenne Primo Ministro e l’anno successivo cominciò a costruire il Muro di sicurezza intorno alla Cisgiordania. Sharon sarà per sempre ricordato come l’uomo che nel Febbraio 2004, al suo secondo mandato, dopo aver confinato Yasser Arafat a Ramallah in Cisgiordania e fronteggiato la durissima seconda Intifada, annunciò unilateralmente che Israele si sarebbe ritirato dalla Striscia di Gaza occupata. Una decisione storica, attuata nel 2005, per cui molti oltranzisti e guerrafondai mondiali non l’hanno mai perdonato. “La Comunità Ebraica di Roma piange la morte di Ariel Sharon – dichiara il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici – se ne va uno dei più grandi leader di Israele che ha contribuito con tutta la sua forza alla formazione dello Stato Ebraico. Oggi ci sentiamo tutti parte della sua famiglia. Sharon ha avuto il compito di condurre le più dure battaglie in difesa di Israele e il coraggio di compiere decisivi passi per la pace. La sua memoria resterà indelebile nei nostri cuori e nei libri di storia. Sharon fu determinante in molte guerre di Israele e in particolare durante la Guerra del Kippur, quando lo Stato fu assalito su tutti i fronti nel Giorno dell’Espiazione. Fu l’intelligenza e il suo coraggio, insieme con un pugno di valorosi uomini, a rovesciare le sorti di Israele. Senza il ‘Leone di Israele’ lo Stato Ebraico forse non sarebbe più esistito. Ma la battaglia più difficile Sharon l’ha probabilmente compiuta per portare il Paese alla pace, ritirandosi unilateralmente dalla Striscia di Gaza e dando così, secondo la sua visione, stabilità e speranza. Il suo progetto prevedeva nuovi ritiri da tutti i territori contesi nel più breve tempo possibile e solo i missili di Hamas, lanciati sulla popolazione israeliana, e il terribile ictus che lo ha colpito, hanno interrotto un processo che solo lui poteva portare a compimento grazie alla capacità di tenere in mano la fiducia degli israeliani che l’avevano eletto, dei suoi avversari politici, ma godendo anche del rispetto dei suoi nemici. In suo onore la Comunità Ebraica di Roma organizzerà nei prossimi giorni una giornata di studio sulla sua figura con la collaborazione degli analisti di Progetto Dreyfus”. Per il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, “Ariel Sharon ha dedicato la sua vita alla difesa del diritto all’esistenza dello Stato di Israele come Paese libero e democratico. Un compito che ha assolto con straordinarie capacità di leadership che gli hanno permesso di ottenere successi di notevole importanza. Il suo nome e la sua fama di grande stratega rimangono legati ad una manovra di aggiramento alle spalle delle truppe egiziane sul Canale di Suez con la quale riuscì a capovolgere l’esito della Guerra del Kippur nel 1973. Fu un’operazione che diresse e realizzò in maniera coraggiosa e brillante sul piano militare. Ma egli non è stato soltanto un grande generale tanto che, una volta eletto alla carica di Primo Ministro, ha tentato ripetutamente di aprire nuove strade per la cessazione delle ostilità e l’inizio di un processo di pace. In questo contesto ha preso anche la coraggiosa decisione di ritirare, nell’agosto del 2005, la presenza civile e militare israeliana dalla Striscia di Gaza. Questo è un momento di dolore e commozione che accomuna gli Ebrei italiani ai cittadini e allo Stato di Israele”. Il Leone di Israele è così tornato nel luogo che più di ogni altro gli era caro, il suo ranch dei Sicomori nel deserto del Neghev, per riposare accanto all’amata moglie Lily. Sì, nel deserto che Israele, grazie a Sharon, ha trasformato in un giardino coltivabile e che rende omaggio al suo figlio: “Arik, amico, leader, comandante, sei stato la spalla su cui la sicurezza della nostra nazione si appoggiava. La storia della tua via è intrecciata con quella dello Stato, i tuoi passi sono impressi in ogni collina e in ogni valle. Hai mietuto il raccolto con la falce e difeso i covoni con la spada. La tua impronta è visibile in ogni successo diplomatico e in ogni avamposto militare – sono le parole del presidente Shimon Peres alla cerimonia funebre – eri un uomo raro. Hai trasformato l’impossibile in grandi opportunità. Riposa in pace”. A partecipare alle esequie alla Knesset oltre mille persone: membri del governo, del Parlamento, di Tzahal, ma anche tanti leader stranieri, tra cui il vicepresidente americano il cattolico Joe Biden e l’ex premier britannico Tony Blair, inviato speciale per il Medio Oriente del Quartetto di Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e Russia. “Sharon è stato uno dei più grandi leader militari del Paese. Appartiene alla generazione dei suoi padri fondatori e ha avuto un ruolo centrale nel lascito di valore d’Israele – ricorda il primo ministro Benjamin Netanyahu – non ero sempre d’accordo con Arik e lui non era sempre d’accordo con me, ma quando abbiamo servito nello stesso governo, ci siamo supportati l’uno con l’altro per il bene dello Stato”. Il cattolico Biden confessa: “Ci ha lasciato troppo presto. Ma lo sforzo per raggiungere la pace continua”, definendo Sharon “un uomo complesso, in tempi complessi” e ricordando “la stella polare che ha condotto il suo cammino: la sicurezza dello Stato d’Israele e del suo popolo”. Il deserto del Neghev può essere trasformato in prateria abitabile: è questa l’eredità più preziosa lasciata da Sharon. Per proteggere la fattoria dei Sicomori che nel 2007 fu colpita da un missile sparato da Gaza, l’esercito israeliano prende altissime precauzioni, impiegando due batterie del sistema di difesa Iron Dome. Ma un razzo è stato sparato da Hamas verso il sud d’Israele proprio in questi giorni, un tragico e inquietante segno di guerra e non di pace! Se Ariel Sharon attuò quello storico ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005 deciso dal premier in modo unilaterale (ottomila israeliani furono evacuati, molti trascinati a forza dai soldati dell’esercito) certamente non merita di essere commemorato a suon di missili. L’Europa di svegli dal sonno della ragione, facendo memoria istituzionale dello storico discorso del 2005 pronunciato dal Leone di Israele a tutto il mondo: “Il giorno è arrivato. Comincia il passo più difficile e doloroso di tutti: evacuare le nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dalla Samaria del nord”. Cioè, la Cisgiordania. “Questo passo è molto difficile per me, personalmente. Non è a cuor leggero che il governo di Israele ha preso questa decisione sul disimpegno e il Parlamento non l’ha approvato a cuor leggero. Non è un segreto che io, come tanti altri, ho creduto e sperato che saremmo potuti restare per sempre a Netzarim e Kfar Darom. Ma la realtà che cambia nel paese, nella regione e nel mondo mi ha richiesto di cambiare posizione. Non possiamo stare a Gaza per sempre. Più di un milione di palestinesi vivono lì e il loro numero raddoppia ad ogni generazione. Vivono ammassati nei campi profughi in povertà e nella disperazione, in focolai di odio crescente senza speranze né orizzonte. È perché siamo forti, non perché siamo deboli, che facciamo questo passo. Abbiamo provato a trovare accordi con i palestinesi per portare i nostri popoli alla pace, ma i nostri tentativi si sono schiantati contro un muro di odio e fanatismo. Il piano di disimpegno unilaterale che ho annunciato due anni fa è la risposta israeliana a questa realtà. Questo piano farà il bene di Israele nel futuro. Noi riduciamo così gli scontri giornalieri e le vittime da entrambe le parti. L’esercito israeliano si riunirà di nuovo lungo le linee difensive dietro il recinto di sicurezza. Quelli che continueranno a combatterci, incontreranno la piena forza dell’esercito israeliano e delle sue forze di sicurezza. Ora tocca ai palestinesi. Loro devono combattere le organizzazioni terroristiche e smantellare la loro infrastruttura e mostrare intenzioni sincere per ottenere la pace e sedersi con noi al tavolo delle trattative. Il mondo aspetta la risposta palestinese, una mano tesa per la pace o il fuoco del terrore. A una mano tesa noi risponderemo con un ramo d’ulivo, ma risponderemo con durezza al fuoco con il fuoco. Il disimpegno ci permetterà di guardare in casa nostra. La nostra agenda nazionale cambierà. Per quanto riguarda le politiche economiche saremo liberi di occuparci delle divergenze sociali e di combattere davvero la povertà. Miglioreremo l’educazione e aumenteremo la sicurezza personale di ogni cittadino del paese. La disputa intorno al piano di disimpegno ha provocato ferite, astio tra fratelli e parole e azioni forti. Capisco il dolore e il tormento di chi si oppone ma noi siamo un solo popolo anche quando combattiamo e discutiamo. Residenti di Gaza, oggi noi poniamo fine a un capitolo glorioso della storia di Israele, un episodio centrale nelle nostre vite di pionieri, di realizzatori del sogno di coloro che hanno portato il peso della sicurezza e degli insediamenti sulle loro spalle per tutti noi. Il vostro dolore e le vostre lacrime sono parte inestirpabile della storia del nostro paese. Qualunque cosa succeda, noi non vi abbandoneremo e dopo l’evacuazione faremo di tutto per ricostruire le vostre vite e comunità di nuovo. Voglio dire ai soldati e alla polizia: voi dovrete affrontare una missione difficile. Non fronteggerete un nemico, ma fratelli e sorelle. L’ordine di oggi è sensibilità e pazienza. Sono sicuro che questo è il modo in cui agirete. Voglio che sappiate che la gente è con voi ed è fiera di voi. Credetemi, il dolore che provo nel compiere questo atto è pari alla consapevolezza che è necessario farlo. Intraprendiamo una nuova strada che ha non pochi rischi ma che contiene anche un raggio di speranza per tutti noi. Con l’aiuto di Dio, questa sarà una strada che porta all’unità e non alla divisione, che non porta all’odio tra fratelli ma all’amore incondizionato. Farò tutto ciò che è nelle mie possibilità perché sia così”. Quando la giornalista Fiamma Nirenstein chiese a Sharon durante un’intervista se non gli dispiacesse essere da tutti chiamato “il falco Sharon”, rispose con uno di quei suoi sorrisi che dicevano: “Ho ben altro di cui preoccuparmi”. L’Europa e la storia un giorno gli renderanno per davvero giustizia. Arik, il vecchio Leone di Israele, ha pagato di persona, con l’esplosione del suo stesso cuore e della sua mente fino al coma, lo strazio dello sgombero di Gaza, della sua propria scelta di farsi sommergere dal dolore dei coloni sradicati dalle case della Striscia e dal biasimo dei suoi tradizionali sostenitori. “Ciò che vediamo da qui non si può vederlo da laggiù” – disse Sharon. Allora, che vide? La strada dell’aprire le mani per dare ai Palestinesi di Gaza un’area libera su cui avviare la costruzione di un’entità autonoma e indipendente, un loro Stato di diritto. Così l’esercito israeliano, su ordine di Sharon, strappò le famiglie ebraiche, uomini donne e bambini da Gaza. Subito dopo le loro case, le serre, le sinagoghe furono tutte distrutte da Hamas! Così mentre i terroristi si impossessavano del potere e gettavano dai tetti gli uomini di Fatah, Sharon si ritrovò sempre più solo ed assediato dalla sua stessa sorte di israeliano per cui la salvezza della Terra Santa dal terrorismo era il compito maggiore. Sì, perché Palestina e Israele sono la Terra prescelta da Dio non soltanto per il Suo popolo eletto. Adesso, nell’ora del suo trapasso, è il tempo per l’Unione Europea e i potenti della Terra di lasciare i luoghi comuni e di giudicare Ariel Sharon, non secondo l’odio razzista antisemita proprio dei terroristi fondamentalisti e dei mercanti di morte, ma per ciò che è stato veramente nonostante gli sia stata appiccicata l’odiosa etichetta di “boia di Sabra e Chatila”. Cioè di uno dei campi profughi palestinesi in Libano, assaliti dalla fame di vendetta delle milizie maronite furiose per l’omicidio del presidente Bashir Gemayel. Le milizie, comandate da Elie Hobeika, si trovavano in zona da quando gli israeliani l’avevano occupata. Gemayel aveva stabilito un rapporto con gli stessi israeliani. Sharon che era ministro della Difesa è rimasto ed è insegnato nelle scuole palestinesi finanziate dall’Europa, nell’infinita tragedia popolare mediorientale che ha un indistinto sapore a metà strada tra mafiosità tribale, corruzione e vittimismo asfittico, l’assassino di settecento persone massacrate tuttavia dai loro nemici locali nell’ambito di uno scontro che durava da tempo. La Commissione israeliana Kahan accusò Sharon di avere ignorato le sue responsabilità e di avere trascurato la possibilità di salvare i Palestinesi. Sharon pagò duramente. Si dimise da ministro della Difesa ma vinse il processo americano contro Time Magazine che lo accusò di essere stato avvertito delle uccisioni mentre erano in corso. Hobeika fu poi assassinato nella catena di vendette tutte libanesi. È tempo che i potenti e i media del mondo ricordino che Sharon non uccise i Palestinesi di Sabra e Chatila. Forse non sapeva niente della strage in corso, forse non seppe salvarli. Ma non fu il loro boia. Altri responsabili di quel massacro attendono il giudizio della Storia. Una vignetta che vinse una gara internazionale di umorismo in Inghilterra mostra Sharon come un “mostro di Goya” col petto e il ventre nudi, lordi di sangue mentre sgranocchia teste di bambini! La verità è che Sharon è odiato per la sua devozione totale alla salvezza dello Stato di Israele. L’odio che l’accompagna pure oggi è legato al fatto che Sharon salvò Israele quando con un pugno di uomini e ferito sfondò il fronte dell’esercito egiziano penetrando nel Sinai e ricacciando indietro l’avanzata di Nasser. È un odio tribale negatore della storia e della verità dei fatti. Un odio cieco che non sopporta la memoria di quando nel 1948 abbracciato a un commilitone, ciascuno con una sola gamba e feriti al ventre, seguitarono a combattere nelle colline di Latrun; di quando fondò l’Unità 101 che riuscì a scovare un grande numero di terroristi attraverso le mitiche operazioni di paracadutisti; della guerra “Scudo di difesa” del 2002 a Gaza; e della costruzione nel 2003, dopo lo scontro con Hamas, eletto per la seconda volta primo ministro, di un altro Scudo di difesa, quello della pace vera coi Palestinesi. Sharon sfidando il suo stesso popolo e il rifiuto storico sempre contrapposto a Israele da tutto il mondo arabo, portò via gli israeliani da Gaza e da quattro insediamenti nel West Bank. Quindi Ariel non è stato solo un falco ma anche la più dura e determinata di tutte le colombe d’acciaio. Un vero leader che in Italia non abbiamo dai tempi di Cavour, sommersi come siamo da politicanti incapaci di futuro. In Israele l’omaggio ad Ariel Sharon è un dovere storico e morale, da insegnare alle future generazioni di giovani che amano vivere nella Terra Santa, anche da cristiani. Quel razzo Qassam sparato da Hamas, invece, verrà ricordato come una vergogna. Avvolta in una bandiera di Israele e circondata da quattro ufficiali della guardia d’onore della Knesset, la bara con la salma di Ariel Sharon è stata onorata sul piazzale di fronte al Parlamento dello Stato Ebraico da migliaia di cittadini. Sharon riposa sulla collina Anemone. Il premier Netanyah apre la seduta domenicale del governo con un momento di silenzio in memoria del predecessore: “Arik è stato anzitutto e soprattutto un combattente ed un comandante, uno dei più grandi geni militari che il popolo di Israele ha avuto nell’era contemporanea e nella sua intera Storia – osserva Netanyahu – in ogni incarico avuto, da ministro della Difesa a ministro delle Infrastrutture, Arik ha contribuito al rafforzamento dello Stato di Israele esprimendo un legame con la terra che riteneva necessario proteggere perché comprendeva che la nostra sopravvivenza è legata anzitutto alla capacità di difenderci con le nostre forze. Arik era un uomo pragmatico e questo pragmatismo era incardinato dentro una profonda passione e sentimento per il popolo ebraico”. Come segno di omaggio a questa eredità di comandante militare, il feretro con la salma di Sharon è stato accompagnato, nel percorso da Gerusalemme al ranch nel Neghev, da otto generali delle forze armate d’Israele. “Era la spalla sulla quale poteva poggiarsi la sicurezza della nazione – dichiara il presidente israeliano Shimon Peres alla Knesset – un amico, un leader e un generale, un uomo della terra e protesse questa terra come un leone, diventando una leggenda militare”. Qual è la reazione dei Palestinesi di Gaza? “Sharon è morto? Sì, l’ho sentito in tv, so da mio padre che era un criminale, ma tutto sommato la sua morte non mi cambia un granchè”. Questo pensano i giovani. Hamas, dal canto suo, ha celebrato l’evento come “il momento storico della scomparsa di un criminale con le mani sporche del sangue dei palestinesi”. Oltre il 50 percento dei giovani di Gaza e della Cisgiordania ha oggi 17 anni. Su una popolazione di un milione e 763.387 abitanti, il 64 percento dei Palestinesi ha meno di 24 anni. Cresciuti nell’odio ideologico a Israele, nella memoria (oggi anche cinematografica) delle case degli avi perdute con la nascita dello Stato d’Israele, le cui chiavi arrugginite penzolano ancora appese al collo di qualcuno tra i più anziani. Con il 23 percento di disoccupazione che raddoppia ogni anno, questi giovani Palestinesi non vivono che di odio. E l’Europa che fa? La scomparsa di Ariel Sharon riguarda Gaza, l’Europa e soprattutto la leadership politica palestinese che la guida. Fu l’improvviso smantellamento delle colonie ordinato dal generale di ferro a spiazzare i guerrafondai del mondo, ad aprire le danze per il controllo della Striscia su cui due anni dopo Hamas e Fatah si sarebbero reciprocamente massacrati. L’esito di quella frattura grava sui giovani Palestinesi guidati da due fazioni incapaci di qualsiasi rivendicazione politica. Una guerra civile fratricida che sta distruggendo un’intera generazione. Ma per molti motivi i terroristi non rappresentano più la popolazione di Gaza che si dice delusa dal fallimento economico della governance del partito islamico. “La scomparsa di Sharon non è una perdita per l’umanità, noi palestinesi non ci rallegriamo per la morte di nessuno ma non lo rimpiangiamo di sicuro, perchè verso di noi si è sempre comportato da criminale” – osserva a Gaza un portavoce di Fatah, il partito del presidente cacciato dai “fratelli” di Hamas nel 2007. Appartiene alla vecchia guardia e diversamente dai più giovani ricorda il ritiro da Gaza. “Fu l’ennesimo trucco di Sharon con il quale riuscì a ingannare la comunità internazionale. In realtà non si ritirò a beneficio dei palestinesi ma spostò solo le forze militari all’esterno di Gaza in modo da poterla controllare meglio, non a caso siamo ancora sotto assedio”. I giovani Palestinesi hanno altre priorità, come quella del lavoro legale, non più attraverso i tunnel bombardati, e del contrasto alla corruzione nel loro paese. “Sharon era un criminale ed è stato tra i responsabili dei disastri per il popolo palestinese, preghiamo perché lui e tutti i leader sionisti che hanno commesso massacri contro il nostro popolo vadano all’inferno, non riusciremo mai a essere dispiaciuti per la sua morte” – afferma il portavoce di Hamas. Ma il mondo la pensa diversamente. Sono stati 18 i Paesi che hanno partecipato con una delegazione al rito funebre. Anche il Vaticano con alcuni cardinali. Sono ben altre le priorità in Palestina e in Europa. È nota la marea di denari destinata ai Palestinesi: un vortice oscuro che ora il Financial Times, almeno in parte, rende pubblico con circostanziate ragioni. L’European Court of Auditors, ossia la Corte dei Conti Europea, fondata nel 1975, ha emesso un documento dei suoi 28 stati membri in cui si prova che l’Unione Europea avrebbe pagato per sei anni stipendi a impiegati delle istituzioni palestinesi a Gaza nell’ambito di un piano di “nation building”, ma i cui destinatari pare non siano mai neppure andati in ufficio. La Corte dei Conti difende i pagamenti come un “utile strumento politico”! Dal Febbraio 2008 è nato nella UE il progetto Pegaso, il seguito del vecchio Tim nato col primo ministro Salam Fayyad, economista e modernizzatone che non piaceva a Abu Mazen, non più in carica. Tim voleva rafforzare con fondi diretti i funzionari di Fatah contro Hamas, per altro nella lista terrorista europea. Pegaso ha due scopi: rafforzare le istituzioni e i servizi pubblici, finanziando direttamente agli imprenditori le opere infrastrutturali utili, le scuole, gli ospedali, l’elettricità e l’acqua; e pagare direttamente i funzionari palestinesi con i soldi dei cittadini europei, dunque anche italiani. Gli stipendi sono stati pagati lo stesso anche se i funzionari non c’erano? Pegaso ha erogato la grossa somma di 3 miliardi di euro, di cui uno e mezzo in finanziamenti diretti (stipendi) di funzionari che non lavorano dal 2006? E dal 2011 che almeno 2000 funzionari del settore educazione e sanità vengono pagati senza che siano al lavoro? Sempre soldi del contribuente europeo e italiano. Di chi è la responsabilità? Se i funzionari non erano al lavoro, perché pagarli? Per ragioni politiche! Sarebbero state intascate ingenti somme senza che le finalità del progetto Pegaso fossero realizzate. Ma questo è in realtà soltanto la punta dell’iceberg di un vasto abuso culturale e finanziario, devastante per la Pace mondiale, a base di credulità popolare e bontà europea a buon mercato. Se ci si guarda intorno, si osservano anche i 2 miliardi di euro spesi per la cooperazione in Congo in progetti mai realizzati! Le autorità hanno dichiarato che i progetti erano al di là della loro portata? Lo stesso accade per il miliardo di euro donato all’Egitto “per rafforzare la tutela dei diritti umani e democratici”. Il titolo è affascinante, “ma non è stato realizzato niente” – rivela Giovanni Quer, Visiting Fellow al Forum Europa dell’Università di Gerusalemme – e dall’episodio egiziano si vede come la UE abbandonando nell’incuria i propri fondi, ne faccia un mezzo massiccio di corruzione e anche di terrorismo”. Siamo finiti nell’universo fantapolitico del Capitan Harlock? Le istituzioni internazionali e i partiti politici di destra e sinistra estremi hanno sempre avvertito un “debole” particolare verso i Palestinesi, la loro causa, sin dai tempi della Guerra Fredda. Si creò l’idea anche nelle scuole pubbliche italiane, indossando la tradizionale kefiah diventa un simbolo del nazionalismo palestinese, che essi fossero l’epitome della sofferenza causata dall’imperialismo Usa e israeliano. Così, a differenza di tutti gli altri profughi del mondo, fino alla quarta generazione, per sempre, i Palestinesi usufruiscono dei servizi dell’UNRWA, la potente Agenzia create ad hoc dall’ONU che in tutte le sue organizzazioni ha sempre un occhio di riguardo per le loro confuse richieste. Le Ong, le organizzazioni per i diritti umani, per l’assistenza sanitaria e umanitaria, creano così con finanziamenti statali e locali, flussi di milioni di euro la cui destinazione finale resta ignota! Per finanziare le guerre, le carestie, i flussi migratori di massa in Europa? La gestione di questi miliardi a chi fa capo? Invitare gli imprenditori privati europei ed americani a investire in Palestina miliardi di euro-dollari, senza garanzie e rassicurazioni, può essere rischioso. Al-qaida e i suoi affiliati non stanno certo con le mani in mano. Ai guerrafondai ed ai trafficanti di armi e di esseri umani, può far comodo accedere a questi soldi facili. Se l’antisemitismo viene considerato politicamente scorretto, l’antisionismo viene tranquillamente accettato. Ma dall’odio irrazionale e pregiudiziale contro Israele oggi nasce il nuovo odio antiebraico. Il problema degli Ebrei di oggi, in tutto il mondo, non è l’antisemitismo, ma un nuovo fenomeno, la Israelofobia. Naturalmente l’antisemitismo ne è parte integrante, ma se si osserva nella sua esistenza la radice del pericolo antisemita odierno, questo impone una battaglia completamente nuova. Versus l’ebraismo mondiale e i suoi alleati. Per la salvaguardia della pace mondiale, il punto basilare non è l’impegno nella lotta contro l’antisemitismo, ma prima di tutto contro l’israelofobia. Ottenere dei risultati in questo campo, può migliorare la condizione ebraica in tutto il mondo, molto di più che sul tema della Memoria su cui è incentrato oggi? Tutte le celebrazioni che hanno luogo in Europa per ricordare e stigmatizzare la Notte dei Cristalli del 9 Novembre 1938, abbondano ma nessun ebreo può dirsi insoddisfatto guardando il panorama di simpatia, di proclamazione pubblica della necessità della Memoria e di rifiuto assoluto rispetto all’antisemitismo e ancora più a qualsiasi volontà genocida nei confronti degli Ebrei. Angela Merkel ha dichiarato che i tedeschi devono mostrare “forza d’animo e promettere che l’antisemitismo non sarà tollerato in nessuna forma”. È una risoluzione politica e giuridica condivisa da tutti i leader europei e questo è certamente un bene. Ma non è affatto un antidoto contro l’antisemitismo che sta crescendo a dismisura. Né è un altolà alle promesse di distruzione del mondo ebraico, innanzitutto di Israele. È solo un modo poco costoso di affrontare il problema. L’impegno a uccidere gli Ebrei ha un carattere soprattutto religioso nel mondo islamista, come si legge nella “carta” di Hamas e nelle prese di posizione dei Fratelli Musulmani. Diverso è il discorso pubblico politico, come quello dell’Iran, o quello turco, in cui la condanna a morte di Israele si trasferisce solo in seconda istanza sul popolo ebraico ed è più propriamente israelofobica. È dall’odio irrazionale e pregiudiziale contro Israele, intriso di stereotipi antisemiti e che vive di una vita propria molto intensa, in piena trasformazione, ricco di invenzioni contemporanee (“gli ebrei nella loro storia non sono mai stati a Gerusalemme; i soldati dell’IDF asportano gli organi dei palestinesi, il Muro di separazione è una forma di apartheid”) che oggi scaturisce l’odio antiebraico. Se la lotta contro l’antisemitismo fosse combattuta sui temi della Memoria e dell’identità ebraica, avrebbero avuto ben più di qualche risonanza nell’animo europeo le miriadi di programmi di studio della Shoah nelle scuole, i film in tv ed al cinema, i videogiochi, i viaggi nei campi di sterminio di Auschwitz e Dacau, il dialogo interreligioso, la storica vergogna delle leggi razziali. Tali “imprese”, putroppo, pur avendo avuto un certo successo, appartengono ancora al “mainstream” istituzionale! Nessuno è contrario, da nessuna parte politica o culturale esistono obiezioni. Ma come per magia spariscono nel nulla di fronte all’israelofobia. La Memoria della Shoah è infatti svincolata in Europa e nei Paesi islamici dal diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Non contano nulla. Perciò, mentre il politically correct non ammette l’antisemitismo e tutti i presentatori tv sono pronti a proclamare il 27 Gennaio di ogni anno, a costo della propria vita professionale, una parola gentile verso gli Ebrei in quanto “religione diversa” (in effetti, gli Ebrei vengono più apprezzati come “minoranza”) l’antisionismo invece è in crescita verticale, è di moda, è urlato, è vestito, è sussurrato, è snob e popolare. “That shitty little country” – come disse l’ambasciatore francese a Londra, è un’acquisizione ormai comune tra i giovani europei. Come scrive sul Wall Street Journal, Daniel Schwammenthal, dopo l’antisemitismo senza Ebrei, adesso ci tocca vedere l’antisemitismo senza antisemiti. L’antisemitismo infatti non è attribuibile pubblicamente, anche dalla maggioranza delle leadership ebraiche, se non ad alcuni miserabili gruppi neonazisti e, mentre si giura di combatterlo, non se ne ammette l’esistenza dove lo si trova nelle forme più evidenti, ovvero fra gli intellettuali, nell’ambito delle NGO, delle istituzioni internazionali come l’ONU e derivati, nell’ambito dell’Unione Europea, delle associazioni per i diritti umani e, come ragione di vita e di identità, nel mondo islamico. Quando si dichiara la crescita dell’antisemitismo in Europa, comprovata sfortunatamente da mille indagini conoscitive di cui l’ultima rivela che circa il 25 percento degli Ebrei in Europa ha subito aggressioni fisiche o morali, si assiste a una reazione di assoluto stupore diplomatico. Tutti sono pronti a giurare, il 27 Gennaio, di non aver mai incontrato in vita un antisemita! “Sono episodi sporadici, gruppi estremi, soprattutto di estrema destra” – è la risposta più comune. Ma non è affatto così. Siamo in presenza di un fenomeno nuovo che non è antisemitismo classico. È israelofobia. Una parola coniata da Richard Prasquier, presidente del CRIF, l’organizzazione ombrello delle comunità ebraiche francesi. Israelofobia è una parola con evidente assonanza al termine Islamofobia che ha il significato di un immane pregiudizio culturale a carattere razzista nei confronti della religione del Profeta. I difensori dei diritti umani stanno di guardia, anche su Internet, contro ogni elemento di discriminazione verso le persone di fede islamica. È giusto. Nessuno invece ritiene l’israelofobia una violazione dei diritti umani. Nessuno difende il popolo ebraico da questo pregiudizio feroce onnicomprensivo che investe la storia e il carattere del popolo ebraico e lo copre di menzogne anche nelle scuole pubbliche del mondo. L’attacco a Israele spesso viene addolcito dalla legittima critica a un Paese sovrano ma non si considera affatto la ricaduta antisemita sul popolo ebraico. L’israelofobia contiene un devastante elemento antisemita: infatti usa i più facili stilemi per delegittimare Israele, “patria dei vizi morali e sessuali, dell’avarizia, dell’indifferenza, della ferocia verso chi non è Ebreo. Tutti elementi che trasferiti al giudizio su Israele hanno una chiara destinazione virale finale verso chiunque sia ebreo. L’anticamera dei futuri campi di concentramento e sterminio? L’israelofobia è un blocco mentale di odio cristallizzato intorno a un fazzoletto di terra, a un’idea, a una fede in Dio, alla complessità non dell’ebraismo ma di una sua particolare espressione, il sionismo. L’antisemitismo odierno, se si vanno a leggerne le espressioni più di “moda”, nasce dal pregiudizio su Israele e si moltiplica tra i giovani Palestinesi. Gli Ebrei europei e buona parte di quelli americani hanno intuito questa “moda” e dove possono si astengono dall’originaria posizione di totale sostegno a Israele, spesso apparendo reticenti e opportunisti. Il sì dell’Italia al riconoscimento unilaterale della Palestina all’ONU ne è stato un chiaro segnale allarmante. La questione è tutt’altro che chiusa. È in gioco la pace mondiale. Molte volte l’odio alla bandiera di Israele è più esplicito che mai. Altre non viene neppure esposta per simpatia, comprensione e protezione nei confronti dei Palestinesi. Se Israele è dunque la vera frontiera della pace mondiale, da terra incognita qual è, dove la critica è sempre legittima, l’israelofobia non ha niente a che fare con le polemiche politiche dello Stato d’Israele, perché non si basa sull’osservazione della realtà ma sull’invenzione di stampo neonazista. È un’ossessione di cui una delle espressioni più chiare è la risoluzione dell’ONU “sionismo uguale razzismo” del 1975. È la strana “fretta” che ha fatto votare all’Assemblea delle Nazioni Unite la bellezza di dieci mozioni contro Israele, che si aggiungono alle 23 votate tutte insieme lo scorso anno, per inventare scenari mostruosi, in cui la legittima difesa diventa crudeltà originaria di un paese razzista e assassino. È così che si alimenta l’odio nei giovani Palestinesi. L’israelofobia è un fenomeno irrazionale come l’antisemitismo, è una febbre inguaribile quando su Israele si può dire qualsiasi evidente menzogna che troverà sempre un vasto consenso. Daniel Goldhagen nel suo ultimo libro fa un elenco delle follie che si scrivono e dicono su “Israele, una fonte di disordine per i Paesi circostanti, la causa delle dittature del Medio Oriente, la maggiore minaccia alla pace mondiale, il nazista dei nostri tempi che ha ispirato la guerra contro l’Iraq, controlla la politica americana ma ne tradisce gli interessi autentici, crea odio verso gli americani e l’Occidente, perpetra il genocidio dei Palestinesi, vuole distruggere la Moschea di Al Aqsa, assassina i bambini palestinesi, avvelena i pozzi e le persone”. Molto lavoro culturale di destrutturazione è all’opera in Europa sul diritto di nascita degli Ebrei in Israele, sostenendo che il loro legame con la Terra Santa è inesistente, lontano e discontinuo. In barba alle Leggi di Dio. Un altro termine che nutre l’israelofobia è “illegale”, spesso riferito all’occupazione dei territori ed al diritto di nascita stesso di un Paese la cui esistenza non è mai stata veramente accettata dai suoi vicini. La realtà storica dei fatti è così lontana dalla dottrina israelofobica. “Fra tutte le democrazie asiatiche o africane – osserva Goldhagen – Israele è la più solida e la più vecchia, ed essendo la 57esima nazione membro dell’ONU, prima della Spagna, dell’Italia, della Germania, non ha passato un momento della sua esistenza senza essere stata violentata e minacciata dal terrorismo, dall’odio religioso e tribale del mondo musulmano. Nel difendersi ha perso 30mila uomini, pari in proporzione a un milione e 200mila americani. Nel terrorismo, ha perso 4000 persone, pari a 400mila. Quando dovette, a seguito di un’ennesima guerra di difesa, occupare il West Bank, si offrì subito di restituirlo, e gli furono opposti dalla Lega Araba i tre no di Khartum: no peace, no recognition, no negotiation. Nella pace con l’Egitto non ha avuto alcuna difficoltà a restituire il Sinai fino all’ultimo centimetro di terra”. Ma le responsabilità delle difficoltà verso la pace sono sempre attribuite a Israele che non ha mai fatto né detto niente che vagamente somigli all’aggressività dei suoi vicini. Eppure essa viene accusata dei peggiori crimini possibili, e di una sostanziale abiezione morale, una posizione che per esempio paesi come il Sud Africa avallano attivamente proibendo ai suoi ministri i viaggi in Israele, e sostenendo che Israele è un Paese in cui si pratica l’apartheid: non importa se le istituzioni democratiche e i diritti umani ricevono il voto più alto dalla Freedom House. È straordinario che l’Onu abbia condannato Israele pochi giorni fa per aver maltrattato i siriani del Golan mentre invece raccoglie i feriti Siriani e li cura nei suoi ospedali. La conseguenza dell’israelofobia è l’antisemitismo crescente, legato al tema di Israele: secondo lo studio del tedesco Friedrich Ebert, il 63 percento dei polacchi e il 48 percento dei tedeschi pensano che “Israele stia conducendo una guerra di sterminio contro i palestinesi”. Così la pensano anche il 41 percento degli inglesi e il 42 percento degli ungheresi. Gli italiani lo credono per il 38 percento. Il 55 percento dei polacchi e il 36 percento dei tedeschi risponde all’indagine: “considerando la politica israeliana, posso capire perché la gente non ami Israele”. Gli intervistati degli altri Paesi studiati sono d’accordo con questa considerazione in una percentuale che varia fra il 30 e il 40 percento. Secondo un’indagine della European Union Agency for Fundamental Rights, il 48 percento degli Ebrei europei intervistati ha sentito o letto l’accusa che “gli Israeliani si comportano con i Palestinesi come i nazisti con gli ebrei”. In Italia, come in Belgio e in Francia, sono il 60 percento quelli che riportano questo stato di cose. Secondo “Shalom”, il mensile ebraico d’informazione e cultura, la narrativa per cui esisteva una “Palestina storica” che i perfidi coloni ebrei hanno occupato cacciando la popolazione sofferente sta alla base della teoria d’odio che conduce al muro dell’apartheid, alla demolizione delle case, alla persecuzione dei palestinesi, ai bambini picchiati e uccisi, al carceriere sionista che chiude Gaza in una gabbia, e per converso, alla glorificazione dei terroristi, alla giustificazione ampiamente diffusa degli attentati e dei missili, dell’uso corrotto del denaro pubblico europeo, al rifiuto dell’esistenza stessa di uno Stato del popolo ebraico, ritenuto un residuo archeologico del colonialismo e dell’imperialismo, una reincarnazione di ogni forza del male compresi i nazisti. Ha ragione Jack Straw, l’ex Ministro degli Esteri inglese, nel dire alla House of Commons che l’AIPAC, la lobby pro-Israele in America “ha fatto dei suoi fondi illimitati uno dei più grandi ostacoli alla pace fra Israeliani e Palestinesi”? La storia regala molti eventi incredibili. Nella ricorrenza della Notte dei Cristalli, il Badishe Zeitung in Germania ha pubblicato una vignetta di Horst Hairzinger in cui una lumaca con la testa di colomba va ai colloqui di pace con l’Iran. Si vede Netanyahu al telefono che dice: “Ho bisogno di veleno per colombe e lumache”. Gli Ebrei avvelenatori sono un classico dell’antisemitismo Anni Trenta del XX Secolo, e così i sabotatori e coloro che causano guerre. Adesso è da Bibi che deriva e si sparge lo stereotipo antisemita. Nella “carta” di Hamas gli Ebrei sono accusati di avere causato tutte le guerre e si promette di ucciderli tutti, uno a uno, fino all’ultimo Ebreo. Follie del XXI Secolo? Per spiegare il perché dell’israelofobia, tre sono le chiavi principali: la prima riguarda la diffusione in tutto il mondo di una presenza musulmana mai vista prima (la famiglia numerosa è sacra all’Islam), la mondializzazione legata alla rete Internet, il moltiplicarsi della propaganda anti-israeliana, la sua forza nelle istituzioni a causa della crescita, in campo sciita e sunnita, della certezza che la battaglia per instaurare l’Islam nel ruolo principe che gli spetta, sia in piena marcia; la seconda è la diffusione di una certa cultura dei “diritti umani” senza se e senza ma; la terza, la presidenza Obama alla testa degli USA nel suo secondo mandato. Barack Hussein Obama ha promosso un sincero rapporto fra l’America e l’Islam che, secondo gli analisti più accreditati, oltre a rivelarsi fallimentare sul terreno politico offre spazio mondiale al più efferato antisemitismo che non ha nulla a che vedere con la fede musulmana. La diminuzione dell’influenza Americana sulla Terra ha lasciato un vuoto che è stato riempito da tutte le ideologie alternative a quella democratica e liberale. Obama non prevedeva questo disastroso effetto secondario? È evidente che nel concepire la politica per cui ha proibito di usare la parola jihad nei documenti ufficiali americani, il presidente Usa non si è soffermato a riflettere quante volte essa sia servita a spiegare il terrorismo contro Israele. Questo non gli è sembrato un punto rilevante rispetto alla sua politica internazionale. L’odio verso lo Stato ebraico non è stato preso in considerazione come una variante politica, neppure nelle sue forme più estreme, e quindi non ha subito in questi anni nessuna sanzione ideologica e morale. Idem in Europa. Obama non ha conservato neppure il rapporto di realpolitik che i precedenti presidenti avevano avuto col mondo egiziano e iraniano; non è stato attento a sottolineare le differenze ideologiche, tutte alla fine attinenti alla Sharia ed alla sua incompatibilità con la democrazia e lo stato di diritto. Obama ha mostrato invece una forte propensione verso un mondo in cui sia prevista una fusione con l’Islam, ignorandone il rifiuto verticale verso la cultura democratica cui si ispira. Ma ha pagato questa scelta con la crescente antipatia verso gli Usa e verso la sua presidenza. Nel 2009 Obama sottolineò il “contributo allo sviluppo degli Stati Uniti dell’Islam” prima di parlare di quello dell’ebraismo e del cristianesimo; ad Ankara, al Cairo, per fondare “un nuovo inizio” Obama cercò di dimostrare che “gli Usa e l’Islam condividono comuni principi di giustizia, di progresso, di tolleranza e di dignità dell’essere umano”. E via di questo passo, nonostante le “primavere” arabe dimostrassero sempre più chiaramente che le aspirazioni del presidente americano non avevano alcun fondamento. La democrazia è stata definita molto spesso, dai clerici sunniti e sciiti, un nemico dell’Islam e non un suo fine. I Fratelli Musulmani che non avevano un partito politico fino alla caduta del presidente egiziano Mubarak, sono stati la successiva illusione di Obama. Sia Hillary Clinton, suo Segretario di Stato, forse il prossimo presidente Usa, sia Nicole Chapman, capo del dipartimento egiziano al ministero degli Esteri, hanno ripetuto più volte che gli Stati Uniti d’America stavano portando avanti un dialogo con i Fratelli Musulmani. Perché Obama non si è mai distanziato da questa posizione? Poi c’è stata la rivoluzione del Generale Sisi che ha sconvolto i giuochi. Perchè? In nome del dialogo con le minoranze intellettuali in doppio petto di queste organizzazioni tutt’altro che umanitarie dell’universo islamico. Quanto al rapporto con l’Iran, è evidente che Obama e John Kerry stanno conducendo il mondo a un accordo con il Paese che fra tutti gli odiatori di Israele potrebbe prima o poi dimostrare coi fatti le sue più evidenti intenzioni genocidarie. Obama ha inghiottito senza difficoltà l’amara posizione israelofobica ed antisemita dei suoi nuovi interlocutori. “Noi seguiteremo a sventolare la bandiera della jihad contro gli ebrei, i nostri primi e maggiori nemici” – dichiara la guida spirituale dei Fratelli Musulmani. E uno sceicco ripete: “Allah ha imposto sugli ebrei una punizione continua per la loro corruzione, l’ultima è stata condotta da Hitler, non c’è con loro altro dialogo che la spada e il fucile, noi preghiamo Allah di ucciderli fino all’ultimo”. Fantasie del XXI Secolo? La mancanza di qualsiasi reazione dell’Occidente e dell’Oriente a questo tipo di posizioni non è nuova. Da tutto il mondo sunnita esce una minaccia limacciosa e continua nei confronti di Israele e, per quanto con discontinuità e ostacoli, pure i vari presidenti americani hanno sempre lasciato intravedere o esplicitato una certa indifferenza verso gli aspetti più razzisti e pericolosi dell’Islam nei confronti di Israele, degli ebrei e dei cristiani ultimamente pesantemente perseguitati in tutto il mondo. Così non è con Obama che non ha mai detto all’Iran che è proibito considerare “Israele una radice ammarcita che deve essere distrutta” né ai Palestinesi che trattano con Israele che è “impossibile ripetere ogni giorno, proprio mentre si tratta, che Israele è un paese assassino, razzista, genocida”. Insomma, con il suo sdoganamento dell’Islam senza alcuna reazione, Obama ha consentito la diffusione irresponsabile del più pesante messaggio antisraeliano. Senza l’America, la Russia e la Cina di guardia, Israele diventa concettualmente preda dei suoi detrattori. Obama, inoltre, invita l’Unione Europea alla danza che preferisce, come quella dell’incredibile accettazione burocratica e ideologoca, alla vigilia del Giorno della Memoria 2014, della lettura israelofoba araba fino al punto di paragonare l’attacco terrorista di Tolosa all’uccisione di bambini di Gaza da parte dell’esercito israeliano! La Questione Musulmana come quella Morale in Italia, resta evidentemente aperta e prova quanto l’odio per Israele sia un elemento fondante dell’ideologia islamica, delle guerre del presente e del futuro. Paradossalmente la cultura dei diritti umani, essendone Israele un leale difensore, anzi l’incarnazione più evidente in Medio Oriente, aggredisce Israele con una ferocia inaudita. Questo non è certo accaduto a partire dalla verità dei fatti osservati, ma perché nella storia del suo sviluppo negli anni del Dopoguerra che furono anche quelli della Guerra Fredda e poi dopo il 1967, Israele si è trovata dalla parte sbagliata della barricata. Il sionismo infatti è stato identificato con l’imperialismo occidentale. L’israelofobia è stata in gran parte disegnata sulla natura delle grandi e piccole istituzioni, ONU e Ong, che sarebbero preposte a salvaguardare i diritti umani e che di fatto ne hanno fatto uno scudo ideologico. La patologia sistemica che riguarda questo tema nasce nella storia di un’ideologia di sinistra e destra in Italia e in Europa che, al tempo in cui il comunismo si dimostrava un ripugnante totalitarismo, sceglieva di non accusarlo e di combattere al suo fianco contro il capitalismo, l’imperialismo e sionismo. Gli Ebrei non rispondevano più all’idea di un popolo che con la sua storia di sofferenza e morte forniva munizioni alla guerra contro la società borghese. Così da questa perversione etica nasce un certo uso politico del tema dei diritti umani, spesso utilizzati per motivi tattici e strategici. Nasce altresì l’uso ridicolo e penoso del tema dei diritti umani contro Israele, uno dei Paesi leader nel mondo nonostante le pesanti condizioni quasi impossibili, come Sharon ha più volte dichiarato. Gli anni ‘60 hanno portato con sé la patologia dell’uso radical-chic, ancora vivo, dell’aggressione verbale ed artistica per cui il mondo si è improvvisamente riempito di “fascisti” sionisti: tali sono stati considerati Margareth Thatcher, George Bush padre e figlio, Silvio Berlusconi e Ronald Reagan. Tutti, così, insegnati, studenti, cantanti e scrittori diventarono Palestinesi e comunisti. Israele era amico degli americani e “faceva soffrire i Palestinesi”, una popolazione del terzo mondo, araba, islamica e povera della quale nessuno aveva mai parlato, avvezza a una leadership autoritaria e feroce anche verso il proprio popolo. Così la Palestina diventò il Paese anti-fascista ed anti-imperialista per eccellenza, che stava nel campo giusto, quello delle “democrazie popolari” in realtà tutte quante dittature che, come il Celeste Impero, seguitano ad essere tali nonostanti gli investimenti esteri, gli smartphone e i tablet delle multinazionali ivi assemblati, prodotti e spediti. Alla mancanza di una chiara condanna per il terrorismo europeo di quei “compagni” islamici degli Anni Sessanta, Settanta e Ottanta, giustificato in vari modi, si è affiancata la giustificazione del terrorismo internazionale contro Israele, compreso l’attacco alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 e l’esaltazione dei terroristi assassini accolti con il tappeto rosso adesso che Israele li ha liberati. A questi terroristi l’Autorità Palestinese offre in premio un assegno di 50mila euro-dollari ciascuno (capito Europa?) più uno stipendio mensile pagato anche dai contribuenti italiani che, tra i mille suicidi imprenditoriali in corso, versano da anni nella loro peggiore crisi economica, antropologica, etica, morale e politica del Secondo Dopoguerra. Uno dei terroristi liberati ha ucciso un padre che guidava accanto alla sua bambina, un altro ha ucciso a picconate un sopravvissuto della Shoah, un altro ha assalito e fatto a pezzi un impiegato che lavorava a Gaza in un ufficio di aiuto per i Palestinesi? Che importa, difendiamo i diritti umani! Questi sono i fatti, uno degli infinti articoli dell’israelofobia in un mondo, sempre più pazzo, che rende un diritto un ambiente “smoke-free” piuttosto che indossare il burqa o praticare l’escissione dei genitali femminili, che non ha mai sentito come propria la necessità di occuparsi del terrorismo contro Israele, dei diritti umani degli israeliani. L’israelofobia rende la battaglia per i diritti umani totalmente inaffidabile e crea un danno permanente all’Unione Europea, al suo stesso futuro di Stati Uniti d’Europa con la sua Banca Federale. Il sogno che giustifica ancora l’euromoneta e le elezioni del Parlamento europeo, è l’adesione di Israele all’Unione Europea e la fine di tutte le guerre e le migrazioni forzate nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Una nuova operazione di lotta si impone: a fianco della lotta contro l’antisemitismo tradizionale con le armi della Memoria, occorre disegnare un strategia culturale e politica che lo consideri una conseguenza dell’israelofobia. In Italia dobbiamo ancora studiare e capire il ruolo della cultura ebraica nella nostra storia. È sulla storia di Israele, sulle sue caratteristiche, le sue azioni, sul suo diritto a difendersi, ad esistere, sulla persecuzione verbale, artistica e fisica a cui è incessantemente sottoposta, che occorre concentrare l’azione contro l’antisemitismo. Ogni altra opzione, ne consentirà la crescita tra i giovani del mondo, com’è accaduto sino ad oggi, aprendo le porte ad altri scenari di sterminio globale. Israele ha il diritto di difendersi e l’Europa di elargire i soldi pubblici dei suoi concittadini con saggezza e moderazione, per non alimentare le disastrose guerre fondamentaliste e gli ignobili traffici di armi e di esseri umani. Shalom!
Nicola Facciolini
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