E’ morto oggi, quasi centenario, Pete Seeger, attivista politico, sostenitore dell’area più radicale della sinistra americana, uno dei massimi autori della canzone di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta, che nel ’40, con Woody Guthrie, a New York creò un sodalizio che può essere considerato una pietra miliare nella storia musicale, con effetti sonori e sociali che dopo aver ispirato artisti di generazioni diverse non hanno ancora cessato di avere conseguenze, con pagine che suscitarono una straordinaria reazione rispetto alle angosce di quel periodo in cui il mondo stava precipitando nel caos e nel disastro, plasmando, con il loro esempio, le avanguardie del folk revival del Greenwich Village fino a Bob Dylan e un vero e proprio esercito di artisti “contro” come Joan Baez, Phil Ochs, Tom Paxton, Cisco Houston, Odetta, Utah Phillips, Arlo Guthrie ed altri, che frenarono, di fatto, una nuova America ed un nuovo sociale nel mondo.
La vicenda, che idealmente trova il suo compimento nella campagna per Barack Obama di Bruce Springsteen, condotta con la sola chitarra acustica di fronte a folle oceaniche nelle grandi città americane, oggi che Seger è morto, ci lascia intravedere quanto poveri e non solo in termini economici, siamo diventati in questa parte del mondo, soprattutto in questa Italia in cui di maestri nelle arti non se ne trovano, né si trovano altre ispirazioni in ambito culturale o sociale.
“This Land Is Your Land”, è l’emblema ed il coronamento del lavoro di Guthrie e Seeger, mentre la banalità delle canzonette di Sanremo (evento di nuovo alle porte), quello di una nazione davvero derelitta, vuota, disorientata e allo sbando.
Più di 300 emendamenti in poche ore sono piovute sulla proposta di riforma della legge elettorale uscita dall’intesa tra Renzi e Berlusconi, tre provenienti dal quel Pd che è sempre più spaccato, con uno che trasforma le primarie da obbligatorie a facoltative ed una scelta dei candidati che viene dunque messa sul piatto delle trattative con Forza Italia.
L’inizio della discussione in Aula è previsto per domani pomeriggio, ma è possibile che slitti al 30 gennaio, perché si è davvero molto lontani anche solo da un abbozzo di accordo.
A far temere uno slittamento, scrivono Stampa e Corriere, è soprattutto la distanza tra i due partiti che l’accordo l’hanno raggiunto: Pd e Forza Italia, con gli Azzurri che ieri hanno prima aperto all”innalzamento dal 35 al 38% della soglia di sbarramento per ottenere il premio di maggioranza, e poi, in serata, hanno frenato proprio su questo punto.
Assistiamo ancora una volta a confusione e disaccordo, emblema di una politica che è solo litigiosa e si prodiga solo in show televisivi, senza lavorare davvero a cose capaci di darci solide istituzioni o lo sviluppo di un corretto svolgimento dei processi democratici.
Non si può mettere sul tavolo, in modo pure abbastanza ruvido, un tris di ipotesi e immaginare che quella sia la verità e la via. Ci sarà sempre chi trovando il pelo nell’uovo e mostrerà disaccordo. E allora, la strada maestra resta sempre la stessa: cercare l’accordo con tutti, riducendo le distanze partendo dalle posizioni più lontane, condizione che non è più soltanto tattica, ma metodo di governo e generale. Un metodo che rallenta ogni passo, frena l’ingranaggio già rugginoso, impedisce davvero di risolvere ogni singola questione.
Capita alle migliori repubbliche di morire. È capitato alla quarta Repubblica francese. Ma solo alle peggiori capita di morire senza lasciare eredi, ha scritto profeticamente nel 1991 Saverio Vertone, ne “ L’ultimo manicomio-Elogio della Repubblica italiana”, edito da Rizzoli.
In questo momento in Italia tutti odiamo qualcuno. Odiano anzitutto i politici, ma anche i giornalisti che non sono meglio dei politici e poi gli intellettuali che non sono meglio dei giornalisti; infine i prelati che non sono meglio degli intellettuali. In questo odio ed in queste divisioni è sempre più palese quello che scrive in “L’Italia non esiste” Fabrizio Rondolino: “Chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese (o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno 300 km tra loro) sa benissimo che l’Italia non esiste ed è questa inesistenza il peccato originale delle nostre classi dirigenti e la radice primaria di tutti i mali del nostro paese.
Ci riuniamo solo attorno ai bisogni, falsi ed indotti, al consumismo e alla globalizzazione che ci porta a ritenerci moderni senza farci capire, come dice Hervè Juvin, che con la mondializzazione abbiamo creato sol un uomo rissoso e deterritorializzato, definito dal diritto e locutore di una nuova lingua fatta di un miscuglio di parole mischiate in ciò che resta di un costume locale a pezzi, concentrato esclusivamente su se e sui propri bisogni, con politici altrettanto concentrati su loro stessi o, al massimo, quelli di gruppi specifici di elettori.
Scrive Luigi Scialanca che: “L’Italia è un Paese perduto, senza possibilità di riscatto, moralmente annientato. Qualsiasi impegno è inutile; sprofondiamo in un medioevo senza ritorno”. In questo paese che pure amiamo la politica è incapace, la corruzione dilagante, con 60 miliardi di soldi pubblici (frutto delle tasse) che se ne vanno in tangenti e bustarelle, la giustizia che impiega 4 anni per dire che una giunta regionale è illegale, le banche ricevano euro in regalo e non aiuto l’impresa e, in un solo anno, il 2013, vi sono stati due nuovi milioni di disoccupati.
Nella sola Sardegna ci sono 1500 candidati per 60 posti di consigliere regionale, perché si critica la casta ma si vuole farne parte, mentre Pd e Pdl si uniscono per fare la Tav e la legge elettorale e ministre piazzano i loro uomini nelle ASL e si svolgono concorsi universitari truccati con noti professori che pubblicamente si vantano di farlo.
Siamo un paese sempre più lacerato e diviso, con 3 regioni in mano alla criminalità organizzata, uno Stato che scende a patti con la mafia, un porto in piena zona sismica scelto per far trasbordare 600 tonnellate di armi chimiche.
Recentemente su “Tracce” si è discusso sul perché noi Italiani siamo arrivati a questo punto ed il politologo Sergio Soave ne ha avute per tutti.
Per una politica stretta tra una sovranità nazionale limitata e un sistema statalistico, corporativo, paralizzante, che è stato messo sottosforzo dall’elemento catalizzatore della crisi internazionale, ma anche per i sindacati che certamente un passato e e hanno avuto un ruolo importante ma che oggi, se il Paese con un tasso di sindacalizzazione tra i più alti d’Europa ha anche gli stipendi tra i più bassi, vuol dire che hanno dato vita solo ad un sistema autoreferenziale ed anti-meritocratico.
In questo ambito la verità è che si è andato creando un sistema neocorporativo che trova ragione, in gran parte, nella natura storica dell’Italia che è corporativista per definizione e litigiosa fra corporazioni da sempre.
Durante il Fascismo c’era da salvare uno Stato, che prima era diventato autoritario e poi è stato diviso in due. E quello che si fece – forse inevitabilmente – fu di restaurare i meccanismi dello Stato sabaudo preesistente, che peraltro aveva tratti corporativi, dandogli una base democratica. Per salvare la situazione, s’introdussero nuovi elementi di statalismo. Per esempio, il modo in cui furono usati i fondi del Piano Marshall vennero criticati dagli stessi americani:, che videro il rischio reale che ad imprese ed attività produttrice non arrivasse nulla. Comunque, in sostanza, in Italia la democrazia politica non ha costruito lo Stato, ma ne ha assunto la gestione.
Ciò che a noi sono mancate sono state sia l’idea unitaria di Nazione che una vera rivoluzione liberale. La Seconda Repubblica è stata un tentativo di risposta in questo senso, ma con una analisi un po’ raffazzonata e risposte pasticciate nel tentativo di dare cittadinanza a visioni e a ceti che rifiutavano un rapporto di sudditanza con lo Stato. Ma il tentativo è fallito, per colpa della classe politica sia di destra che di sinistra, che non è riuscita nell’impresa per impreparazione o indifferenza. Rifondazione comunista che sosteneva Padoa Schioppa o Visco metteva una frase populista in mezzo a misure economiche di stampo liberista; quelli di destra hanno fatto le stesse cose, mettendoci dentro un po’ di chiacchiera sociale.
Nessuno ha avuto il coraggio di dire che ciò che è mancato è una politica con autentici spazi reali di libertà ed azione, capace di ricerca delle soluzioni e delle iniziative dentro questi spazi, con, naturalmente, il coraggio di mezzo tutta la farragine di sistema corporativo in senso stretto.
Una politica che non ha fatto nulla per la cultura e la formazione, che ha dato vita, come scrive Galli della loggia, negli ultimi 30 anni, a riforme che hanno fatto a pezzi la scuola ed acuito il vizio accademico iper-umanistico, crociano, che ha considerato inferiore l’istruzione scientifica e tecnica, dimenticando Don Bosco che ha detto che soprattutto bisogna imparare a lavorare.
Comunque, in tutto questo, nello sfacelo generale e nella rissa globale del tutti contro tutti, il primo punto resta decisivo: è inutile cantare Fratelli d’Italia, quando i fratelli non ci sono più o non si considerano tali.
“Risse” è il titolo dell’acquerello che apre questa riflessione, realizzato da Lucia Conversi, metafora dio un annebbiato senso d’impossibilità che ci avvolge in questo momento storico, con la rabbia che sfocia in rissa e si manifesta con una fauna inferocita, improbabile e confusa, iconico riassunto di un riscatto miraggio a cui molti anelano, con figure che picchiandosi annientano la dignità da parlamentare, con una contraffazione smascherata dai vestiti stropicciati dall’impeto della rissa, che ne fanno simulacri sfondati con armature lesionate, ossa contuse e compostezza che si torce alla forza della non sopportazione.
Carlo Di Stanislao
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