L’anno 2014 è iniziato da qualche giorno, suona la campana a morto per qualche disgraziato garrotato dal meccanismo perverso che il carcere mantiene, per poi vergognarsene senza pudore.
Un altro poveraccio se ne è andato con le gambe in avanti, un’evasione silenziosa, che non fa rumore come quell’altra con lima e lenzuola annodate, da qualche tempo s’evade così, con corda e sapone, senza documentazione, privati persino della propria storia personale, quella che non è mai raccontata per quella che è.
In fin dei conti la prigione non è zona di mare, di sole e divertimento, è quello che è, un lazzaretto disidratato, un contenitore, una catasta di cose, di numeri, di eccedenze e scarti, di sovraffollamento, e dunque, c’è bisogno di dare aria ai capannoni in disuso, consentendo disprezzo e indifferenza ulteriore al lessico quotidiano, che parla non di uomini, cittadini reclusi, non di pene da scontare, non di carcere a norma di sicurezza.
Contese politiche e trabocchetti ideologici, dove la sicurezza appunto è strattonata per meglio comprarla a seconda dei punti di vista, delle prospettive, dei vantaggi di casata, quindi per i detenuti rimane solo il tempo di un urlo strozzato in gola, per gli altri cittadini liberi uno sbadiglio, meglio sonnecchiare di fronte all’ultima ingiustizia, perché fin troppe sono quelle irreggimentate per rendere inquieta e preoccupata una società.
Un altro prigioniero è finito sul ben noto capitolato degli “eventi critici”, letteratura amministrativa per meglio rendicontare certi accadimenti insanabili, che invece meriterebbero maggiore attenzione, dentro sensibilità certamente diverse, ma ognuna in possesso della propria patente di circolazione, ben connessa alla sostanza delle cose, non alla parzialità delle circostanze che di volta in volta fanno gridare, sbattere i pugni, per rivendicare ruoli e competenze, rafforzando i silenzi.
Ci sarebbe bisogno di chiarire questo buco nero profondo in forza di autorevolezza, gli ammanchi esistenziali di una giustizia anch’essa presa per i fondelli, infatti alla galera è possibile trarre un riassunto sociale che non lascia dubbio per il decoro venuto meno, perché autorizzato a scalare le vette più alte dell’inumanità.
Sovraffollamento, suicidi, malattia, solitudinarizzata persino la morte, patologie border line, aree sempre più corpose di doppia diagnosi, tumefazioni e sangue, confermano il pericolo di un vero e proprio regresso insanabile del carcere italiano.
Qualcuno ha detto che sulle brande arrugginite “ i cuscini puzzano di sudore “. No, non è così: quei cuscini, dove ci sono, perché mancano, sono invisi persino alla consorella discarica più vicina.
A quante palline cadaveriche è arrivato il pallottoliere penitenziario?
Siamo a inizio anno, eppure tra una imu reintrodotta con gli interessi, una tares reinventata, una tasi spocchiosa, lo scoramento di una collettività diseduca alla compassione, alla pietà, alla giustizia che salva dall’ingiustizia dell’abbandono.
A volte si ha l’impressione di una discussione oziosa sul carcere, è tutto talmente incancrenito e marcio che non c’è difficoltà ad autoassolversi con un giro di parole, raccontandoci una realtà che non esiste, perché non deve esistere.
A cosa serve una prigione che non custodisce, ma si limita a detenere, che non rieduca, ma addomestica all’attesa del morso che verrà, che determina un tempo bloccato, senza alcuna possibilità di crescere, di spostare l’asse di coordinamento sociale da puro terminale dell’esclusione, a linea di partenza per nuovi stili di vita, di responsabilità assunte.
Un carcere che uccide non serve a nessuno, un carcere che accartoccia l’umanità non serve, un carcere dell’ingiustizia genererà soltanto mostri, forse vecchi nel fisico, ma bambini nella testa, deresponsabilizzati dalla sofferenza cieca che non consegna nuove punteggiature.
Il carcere che uccide non serve perché non è con la vendetta travestita di buone intenzioni che si superano le gambe corte delle menzogne, delle panzane mediatiche, una galera che inghiotte, espelle carne morta, non sana il male di vivere, non ripara al male perpetrato, non diventerà mai protagonista attivo di un preciso interesse collettivo.
Amnistia, indulto, decreti, falsi allarmismi, carceri nuove e mantenimento di una politica del più forte contro il debole, significa consolidare una galera dell’intolleranza, che scardina valore all’autorevolezza delle istituzioni.
Non può esser considerata una pena affidabile, quella pena che priva di rispetto della dignità ognuno, una pena in cui il reato diventa l’unica identità possibile del detenuto, anche quando quella pena verrà scontata, non una volta come Costituzione comanda, ma una volta di più, rendendo vano ogni auspicio di risocializzazione, ogni richiesta di giustizia.
Vincenzo Andraous
Lascia un commento