È salito in macchina, si è sistemato al posto di guida e ha estratto la pistola d’ordinanza; quindi si è puntato l’arma alla testa e ha premuto il grilletto. E così è successo di nuovo. L’ultima volta, appena due mesi fa, era toccato al “Lorusso e Cutugno” di Torino: ora alla Casa circondariale di Novara. La vittima stavolta è un soprintendente penitenziario di 46 anni, sposato e padre di una bambina. Un uomo “tranquillo”, secondo i colleghi, “che non aveva mai dato modo di pensare all’eventualità di un gesto del genere”. Anche se, a quanto pare, mentre andava verso il parcheggio interno dell’edificio, l’agente avrebbe mandato una serie di sms alla moglie, annunciandole le sue intenzioni.
Sale così a più di 100 il numero delle guardie carcerarie che dal 2000 ad oggi si sono tolte la vita: “un’enormità” secondo Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, che ieri ha commentato l’accaduto sottolineando ancora una volta la necessità di correre ai ripari, dotandosi, perlomeno, di “apposite convenzioni con Centri specializzati di psicologi del lavoro in grado di fornire un buon supporto agli operatori di Polizia”. Perché l’ondata di suicidi che da anni di si consuma nelle prigioni italiane sta ormai raggiungendo proporzioni epidemiche. Oltre cento casi, si diceva, soltanto tra gli agenti e solo negli ultimi 14 anni: da quando, cioé, si è iniziato a monitorare con attenzione il fenomeno.
“Oltre” cento perché il numero esatto non è facilmente quantificabile, dal momento che non tutti gli episodi vengono giudicati come “riconducibili a cause di servizio”; il che – in nuclei famigliari in cui spesso l’unico a percepire un reddito è proprio l’agente che finisce per togliersi la vita – può comportare problemi nell’ottenimento della piena pensione di reversibilità, lasciando di fatto mogli e figli a navigare in acque ancor più torbide.
A sentire gli agenti, comunque, il motivo è uno e uno solo: “lo stress di vivere nella più totale precarietà esistenziale, – spiega Antonio Napoli, segretario generale per il Piemonte della Fns Cisl – reso ancora più insostenibile da una serie di tagli che ormai hanno paralizzato il turnover, costringendoci a turni di lavoro massacranti e a una presenza in carcere che è quasi continua. Per rendersi conto di questo, basta fare una semplice constatazione: se si chiede a un agente di polizia dove sarà il prossimo 24 dicembre, è facile che quello possa rispondere con una certa sicurezza. Noi invece siamo costretti a pianificare la nostra vita quasi giorno per giorno: molti di noi oggi non sarebbero in grado di dire se il prossimo fine settimana saranno in servizio o meno. E in Piemonte la situazione non è neanche tra le più drammatiche”.
Eppure è proprio nel capoluogo sabaudo che, per una questione di turni di servizio, si è consumato il penultimo episodio della catena, uno dei peggiori di sempre. Tutto risale al 16 dicembre, appena due mesi fa; quel giorno, nello spaccio interno del “Lorusso e Cutugno” di Torino, l’agente Giuseppe Capitani, 47 anni, ha freddato con due colpi di pistola l’ispettore Giampaolo Melis, di 52; prima di puntarsi l’arma alla testa e aprire di nuovo il fuoco. Da giorni Capitani si lamentava dei turni stabiliti per il periodo natalizio; e se può sembrare surreale che una simile questione degeneri in un omicidio-suicidio, bisogna tener presente “che molti agenti, – precisa ancora Napoli – oltre a svolgere un lavoro che spesso è psichicamente usurante, si ritrovano costretti a vivere lontano dalla famiglia”. “Non è un segreto per nessuno che la maggior parte di noi arriva dal sud Italia”, continua. “E spesso, trattandosi di nuclei monoreddito, l’unica soluzione è lasciare indietro i congiunti, trasferendosi da soli. Quando su simili condizioni di partenza vanno a innestarsi problemi personali, capita che le situazioni si facciano esplosive”.
Ma non ci sono solo i turni nel bersaglio delle polemiche: al “Lorusso”, che pure è considerato un penitenziario modello per l’Italia, da mesi si denunciavano “violenze e precarie condizioni igieniche” come dichiarò, all’indomani della tragedia, Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, un altro dei numerosi sindacati italiani di polizia penitenziaria. Che nello stesso giorno accusò apertamente l’allora ministro Cancellieri di non aver voluto incontrare i rappresentanti di categoria. Anche a Novara, pare fossero parecchie le tensioni latenti; tensioni che proprio una settimana fa avevano iniziato a venire alla luce, le guardie della struttura avevano ‘disertato’ in massa la mensa per due giorni di seguito, denunciando così le precarie condizioni igieniche riscontrate in cucina nel corso di una ispezione interna. Condizioni peraltro documentate da una serie di fotografie, che mostrano ad esempio come gran parte del formaggio utilizzato per preparare i cannelloni presentasse segni di muffa.
Agenti che, col tempo, finiscono loro stessi per sentirsi dei reclusi; come nel titolo di un incisivo documentario girato nel 2012 da Riccardo Di Grigoli, giornalista e collaboratore del gruppo Repubblica-L’Espresso. Il quale – dopo aver visitato le case circondariali di Biella e Torino, oltre al carcere minorile torinese (il cosiddetto “Ferrante Aporti”) – ha voluto chiamare il suo lavoro proprio con quell’amaro gioco di parole, “Agenti reclusi”. “Come in molte carceri italiane – ricorda Di Grigoli, che con quell’inchiesta vinse la prima edizione del premio giornalistico in memoria di Giuseppe D’Avanzo – al “Lorusso” di Torino il numero dei carcerati superava di molto la capienza della struttura. Questo comportava che spazi inizialmente progettati per una persona dovessero essere condivisi”.
“Di qui, – conclude il giornalista -un cortocircuito difficile da fermare. Diminuendo la vivibilità delle carceri, peggiorano le condizioni psicofisiche dei detenuti; ma a peggiorare sono anche le condizioni di lavoro degli agenti, che devono far fronte alle crescenti tensioni e al concreto rischio rivolte; mettendo spesso a rischio la loro stessa incolumità”. (ams)
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Agenti reclusi
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