Preferisco chiudere questo ponte lungo distraendomi dalla politica (sempre più appiattita sull’ovvio), dai fatti di cronaca (con il calcio sempre meno sportivo e giustificabile) e dalla situazione sbarchi sulle nostre coste (con crescente numero di chi vorrebbe che si sparasse sui profughi) e guerra in Ucraina, per occuparmi di tre fatti diversi, ma egualmente interessanti per la realizzazione ed i soggetti.
In primo luogo l’omaggio di quattro capitali europee, Barcellona, Parigi, Berlino e Roma, per celebrare con un progetto innovativo la figura di Pasolini, l’intellettuale del XX secolo che più di ogni altro è riuscito ad reinterpretare l’immagine della nostra Capitale incarnandola in chiave poetica, non semplicemente uno scenario cinematografico o un luogo in cui vivere, ma qualcosa con stringere una relazione passionale, fatta di sentimenti misti di amore e odio, di fasi di attrazione e rifiuto, di voglia di allontanamento e di piacere del ritorno.
La mostra, aperta al Palazzo delle Esposizioni il 15 aprile e che durerà fino al 20 luglio, si compone delle opere e di materiali inediti prodotti dal 1950 al 1975, per raccontare la poetica del maestro attraverso lo sfondo meraviglioso della Città eterna.
Il focus principale della visita consiste nella città vista dall’obiettivo del maestro: articolata cronologicamente in sei sezioni – dal 1950 fino all’anno della morte, il 1975 – l’esposizione propone un percorso lungo un quarto di secolo, il cui fil rouge è l’incredibile vitalità creativa di Pasolini. Si ritrovano i luoghi in cui ha vissuto, dove ha ambientato il suo cinema e i suoi romanzi, si riscoprono la poesia, le persecuzioni ma anche l’impegno politico e le lotte per la città.
Vi si intravedono le circostanze difficili del suo arrivo a Roma che lo catapultarono in un mondo e in una lingua non suoi, appartenenti ai sottoproletari delle borgate in cui la precarietà della sua situazione economica lo costringeva a vivere.
Dalla scoperta di questo universo del tutto nuovo nascerà un’ispirazione potente ed è lì che Pasolini troverà, senza doverli cercare, i soggetti dei suoi primi romanzi e film. In seguito, per il Pasolini uomo pubblico e analista instancabile dell’evoluzione della società italiana, Roma sarà il principale punto di osservazione, il suo permanente campo di studio, di riflessione e di azione. Sarà anche il teatro delle persecuzioni che il poeta dovrà sempre subire da parte dei poteri di ogni genere, e dell’accanimento dei media che per 20 anni lo trasformeranno nel capro espiatorio, nell’uomo da demolire, a causa della sua diversità e della radicalità delle sue idee sulla società italiana.
Tutto in una mostra mai tanto completa ed esaustiva, ricca di materiali inediti o poco trattati come disegni e dipinti, lavori che convivono e comunicano con una galleria ideale di pittori contemporanei che Pasolini amò e descrisse con precisione nelle sue opere: Guttuso, omaggiato in una poesia apparsa senza titolo su “Rinascita” nel 1962, Morandi, che per stessa ammissione di Pasolini ispirò una scena di “Accattone”, e molti altri ( Mafai, De Pisis, Rosai). A fare da sfondo c’è la sua Roma, in cui visse, amò e soffrì fino alla tragica scomparsa avvenuta nel 1975, quando il suo corpo venne trovato senza vita sul litorale ostiense.
Come evento collaterale (ma non certo minore), il prossimo 8 maggio, al Pignaleto si ricorderà Pasolini con una altra mostra gratuita, con interventi di street art, proiezioni d’epoca, installazioni visive e sonore curate da Agathie Jaubourg e Massimo Innocenti, autore dello splendido libro fotografico: “Pasolini Pigneto, il mitico bar Necci ai tempi di Accattone”.
Tornando alla mostra principale, il suo titolo è “Pasolini Roma” e dalla’11 settembre proseguirà il suo viaggio a Berlino, divisa, come da noi, in sette sezioni scandite cronologicamente: partenza dal 1950, quando Pasolini arrivò a Roma, al fatidico 1975, con in mezzo l’universo pasoliniano insieme ai luoghi frequentati di quella Roma che amò e rinnegò.
Perché, a un certo punto, Roma non gli offrì più quello che desiderava e così nel 1964 iniziò a perlustrare l’Italia, da Milano a Palermo, con la sua millecento per girare “Comizi d’amore”, il documentario sulla sessualità, di cui scrisse: “Il cuore mi batteva di gioia, di impazienza, di orgasmo. Solo con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me”.
Con questa mostra ci ricorderemo come per qualcuno, tanti, il suo sguardo era proiettato troppo in avanti, il suo pensiero anticipava i tempi: parlava di “vuoto del potere in Italia”, della tv come “una terribile gabbia che tiene prigioniera l’intera classe dirigente italiana”.
Nel frattempo a Napoli, sino all’11 maggio (ma l’inaugurazione è avvenuta il 13 marzo), si festeggiano i 40 anni di Lupo Alberto, un lupo azzurro, scanzonato e un po’ sfigato, ed i 50 di Mafalda, una bambina terribile, con una raccolta di oltre 100 splendidi libri illustrati, provenienti da 23 paesi di 4 continenti, per un percorso espositivo che promette di rovesciare lo stereotipo del lupo cattivo di fiabesca memoria trasformandolo in un formidabile strumento di conoscenza della diversità.
Quest’anno, il progetto “Girogirotondo, cambia il mondo” dell’Associazione Kolibrì compie 10 anni, un bel traguarda davvero per una realtà associativa non profit, impegnata a promuovere i diritti dell’infanzia in prospettiva interculturale, che coincide con due importanti compleanni: i 40 di Lupo Alberto, personaggio creato dal fumettista modenese Guido Silvestri, in arte Silver, e i 50 di Mafalda, ideata da un altro grande disegnatore, l’argentino Quino, già illustre ospite che inaugurò la prima edizione del progetto di Kolibrì nel 2004.
E siccome il 13 marzo, giorno della inaugurazione della X rassegna è coinciso con il primo anno di pontificato di Francesco, il papa argentino che come meta della sua prima uscita pastorale scelse Lampedusa, l’isola dei migranti è l’oggetto di una terza sezione del percorso espositivo: “Libri senza parole: mostra di “silent books” di tutto il mondo selezionati per un progetto di cooperazione internazionale dalla forte valenza sociale e culturale.
Sono ripresi gli sbarchi in Sicilia con 1.500 disperati nel solo 2 maggio con thread e leghisti che si lamentano dei barconi di clandestini e concordo in generale che sia un problema che non stiamo gestendo in maniera appropriata e moltissimi che dicono di sparargli addosso o limitarsi a lasciarli al loro destino.
L’immigrazione è un problema serio come serio è quello del sovraffollamento delle carceri e altrettanto certamente i mass media con i loro servizi, sempre drammaticamente allarmanti nella ricerca di colpire “l’immaginario collettivo“, presentano una fotografia che non è quella vera.
L’obbiettivo, da anni, è di affrontare i problemi alla radice, ma poi non si vedono che interventi tiepidi solo sugli effetti.
La mancata programmazione dell’accoglienza [..] costringe ogni anno migliaia di richiedenti asilo a sopravvivere in condizioni di indigenza in ripari di fortuna: cosa che “si è manifestata in tutta evidenza già nel 2011 con la cosiddetta Emergenza Nord Africa, che non sembra non aver insegnato nulla. Gli arrivi di questo periodo sono infatti affrontati con le stesse modalità di allora, in cui, esattamente come oggi, gli alberghi sono stati adibiti a strutture di accoglienza, privi di una progettualità volta al reale inserimento socio-lavorativo, ma con uno scopo meramente contenitivo. A farne le spese sono spesso soggetti vulnerabili come i minori stranieri non accompagnati”, denuncia Asgi, che aggiunge che sarebbe anche il caso di abbandonare, una volta per tutte, l’equazione immigrato uguale criminale, perché, anche se questo è uno degli aspetti più spinosi dell’immigrazione, in realtà, le forme che assume la devianza fra i cittadini stranieri sono uno dei fenomeni ad essa ricollegati che ha subito meno variazioni, almeno nelle linee di tendenza, nel corso degli ultimi 10 anni, in quanto gli stranieri, per le precedenti considerazioni, sono anche sottoposti ad un maggiore controllo delle forze dell’ordine, e ciò porta ad una loro significativa incidenza fra le persone denunciate/detenute. Infine, , i dati sulle denunce, le detenzioni, distinte per tipologie di reati e nazionalità al 1.1.2013, non fanno registrare dei cambiamenti che possano favorire una lettura del fenomeno di tipo diverso.
Ben più grave la condizione, tutta nostra ed interna, della violenza negli stadi ed attorno ad essi, con gli scontri fuori dallo stadio Olimpico di Roma, i feriti, le squadre ostaggio dei tifosi, l’ultrà che decide di dare l’avvio alla gara e la Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli che diviene una notte di vergogna per l’intera Nazione.
Una Nazione in cui la vedova di Filippo Raciti , ucciso proprio da quell’Antonino Speziale al quale inneggiava la maglia di Genny a’carogna, che inorridisce e dice: “Sono molto amareggiata e addolorata, umiliata e offesa. Indignata, sono indignata. Mio marito era un servitore dello Stato che ha indossato la divisa a 19 anni, con onore. E’ morto così, con quell’onore. E non si deve dimenticare. Nessuno si deve permettere di umiliare quel sacrificio e disprezzare i poliziotti che ogni giorni escono da casa senza sapere se torneranno”.
“Invece, ha rimarcato dignitosa la signora Grasso Raciti, ho visto la debolezza dei vertici dello Stato nel vedere quell’individuo sugli spalti a dettare legge e con quella maglietta in mostra sugli spalti, che portava la scritta di un assassino, nessuno ha detto niente”.
Pensare che un tempo, da noi, il calcio era passione pura, mentre oggi solo il corollario o lo sfondo per atti delinquenziali contro cui, pare, lo stato non sa reagire in alcun modo.
E’ uscito quesrta settimana “Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso”, pubblicato da Salerno e scritto dall’antropologa Maria Teresa Milicia, che ha ricostruito con rigore e con coraggio l’ormai annosa questione del cranio del presunto brigante calabrese Giuseppe Villella, che servì a Lombroso per elaborare la sua teoria (fallace) dell’avatismo criminale. Conservati al Museo Lombroso di Torino, i resti del povero Villella, che in realtà era un ladruncolo di poco conto, sono rivendicati da tempo dal suo paese d’origine, Motta Santa Lucia. Sono anche al centro di una campagna contro il museo torinese, e naturalmente contro il criminologo veronese, accusato di razzismo: pretesti, spesso e volentieri, per revanscismi neo-borbonici e neo-meridionalismi di stampo “leghista”, che fanno passare il Villella per un patriota del Sud e dimenticano i veri spaventosi problemi del Mezzogiorno: dalla mafia, che domina incontrastata, al disastro ambientale.
Il saggio della Milicia, peraltro calabrese di nascita, invece, smonta tutto ciò; e dimostra, inoltre, che Lombroso non era poi così razzista e antimeridionale come lo dipingono i novelli sanfedisti.
Ma a che serve, dal momento che la televisione fra mille volte più proseliti di un libro?
Allora, nonostante tutto, nonostante la scienza e la scoperta della verità, per tutti Lombroso resterà colui che elaborò la ridicola teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione” (la prima portata naturalmente a delinquere) ed ancora scrivere: “È agli elementi africani ed orientali (meno i Greci), che l’Italia deve, fondamentalmente, la maggior frequenza di omicidii in Calabria, Sicilia e Sardegna, mentre la minima è dove predominarono stirpi nordiche (Lombardia)”.
In pochi leggeranno il bel saggio e solo costoro, una sparuta minoranza, riconoscerà che Maria Teresa Milicia, studiando attentamente le carte dell’archivio di Stato calabrese, riporta la storia alle sue proporzioni reali, togliendo a Lombroso, almeno in questo caso, la nomea di razzista.
Perché se è vero che lo scienziato vide nella fossetta occipitale la prova anatomica del delinquente nato, non fece però alcun collegamento con una specifica origine geografica.
Carlo Di Stanislao
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