Il Processo CODEPINK tenutosi il 1 e 2 dicembre, trasmesso in diretta streaming dal Real News, è una collezione storica di testimonianze sulle bugie e i costi della guerra in Iraq. Esso assume un nuovo significato con l’amministrazione Trump in arrivo, e con i falchi che stanno calando per unirsi a quella amministrazione con gli occhi puntati sull’inizio di un’altra guerra in Medio Oriente, questa volta in Iran.
La mia testimonianza è iniziata con la prima azione di CODEPINK contro la guerra, che ha avuto luogo nel Congresso. Era il 18 settembre 2002, il giorno in cui il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld depose di fronte alla Commissione Forze Armate sul perché gli Stati Uniti dovevano invadere l’Iraq. Egli accusò Saddam Hussein di avere e nascondere armi di distruzione di massa, sollevò lo spettro di un attacco iracheno simile a quello dell’11 Settembre e disse al Comitato che l’Iraq sotto Saddam Hussein era una minaccia globale.
La mia collega Diane Wilson e io eravamo fra il pubblico, appena dietro Rumsfeld e una fila di generali. Era la prima volta che partecipavamo a una seduta del Congresso. Agitata, mi alzai e gridai: “Signor Rumsfeld, abbiamo bisogno di ispezioni sugli armamenti, non di guerra. Perché state ostacolando i controlli? Non è in realtà per il petrolio? Quanti civili saranno uccisi? Quanti iracheni saranno uccisi?” Poi dispiegammo striscioni che dicevano:”Ispezioni dell’ONU, non guerra degli USA” e lo abbiamo cantato più e più volte fino a quando la polizia è venuta e ci ha portate fuori a forza.
Non appena noi fummo espulse, Rumsfeld scherzò su di noi e disse: “Di sicuro il paese che ha espulso gli ispettori non era no né gli USA né l’ONU. E ‘stato l’Iraq a espellere gli ispettori”.
Quella era una bugia. L’Iraq non aveva espulso gli ispettori. Nel dicembre 1998 gli ispettori si ritirarono per la loro sicurezza prevedendo una campagna di bombardamenti anglo-americani. Ma quella fu solo una delle tante bugie sulle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e sulla sua riluttanza a permettere le ispezioni sui suoi armamenti.
Nel febbraio 2003, poche settimane prima dell’invasione USA, CODEPINK guidò una delegazione in Iraq. Volevamo sapere noi stesse ciò che gli iracheni pensavano, in particolare le donne. Le abbiamo trovate terrorizzate di fronte alla prospettiva di un’invasione USA. Alcune ci dissero, a bassa voce: “Sì, Saddam è un dittatore, ma non vogliamo che i militari degli Stati Uniti ci liberino. Questa è una cosa che dobbiamo fare noi”.
Volevamo anche incontrare gli ispettori ONU, e lo abbiamo fatto. Ci dissero che non c’erano armi di distruzione di massa (ADM) e che, anche se ci fossero state, la presenza di tanti ispettori nel paese garantiva che non sarebbero state usate.
Due settimane dopo il nostro ritorno, il 7 marzo, l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) fece il suo rapporto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Basandosi su più di un centinaio di visite a siti sospetti e su interviste private con una serie di scienziati noti per essere stati coinvolti in passato in programmi di ADM, il capo dell’AIEA El Baradei dichiarò che l’AIEA “fino ad oggi non ha trovato prove o indicazioni plausibili di rilancio di un programma di armi nucleari in Iraq”.
Hans Blix della Commissione speciale ONU sull’Iraq (UNMOVIC) disse che non erano state trovate scorte o programmi attivi, ma che non era stato ancora possibile documentare la distruzione di tutte le armi prodotte prima della guerra del Golfo del 1991. Blitz prevedeva che sarebbero occorsi mesi, non anni, per completare il lavoro.
L’amministrazione Bush respinse le conclusioni dei controllori perché contraddicevano le accuse del governo degli USA. Il giorno dopo, il presidente George W. Bush pronunciò un discorso radiofonico agli americani, sostenendo che le squadre di ispezione non avevano bisogno di altro tempo perché Saddam “ancora rifiutava di disarmare”. Il resto è storia.
L’Iraq non poneva assolutamente alcuna minaccia per gli USA. Ma il popolo degli USA, traumatizzato dall’attacco dell’11 Settembre, fu facilmente ingannato dalla propaganda dell’amministrazione Bush secondo cui l’Iraq era uno stato terrorista legato ad al-Qaeda ed era a pochi minuti dal lanciare attacchi contro l’America con armi di distruzione di massa.
Gli statunitensi sono stati vittime di una campagna di pubbliche relazioni manipolata, bersagliati ogni giorno con distorsioni, inganni e menzogne. Con l’inizio della guerra nel marzo 2003, il 66 per cento degli americani erroneamente pensava che Saddam Hussein stava dietro gli attacchi del 11/9 e il 79 per cento pensava che fosse prossimo ad avere un’arma nucleare. Di sicuro Saddam Hussein non aveva niente a che fare con gli attacchi del 9/11 e non ha mai avuto armi nucleari né armi chimiche o biologiche operative. Questo inganno di massa è stato raggiunto solo con la complicità della stampa mainstream statunitense, una stampa che ha rifiutato di riportare le voci dei dissidenti come noi e invece ha cercato di lucrare sulla guerra in Iraq, appoggiare i militari e trarre profitto dall’invasione.
A CODEPINK abbiamo lavorato furiosamente per fermare l’invasione e abbiamo continuato a protestare contro la guerra dopo il suo inizio. Abbiamo tenuto una veglia quotidiana di fronte alla Casa Bianca nel freddo gelido per quattro mesi, abbiamo fatto uno sciopero della fame di un mese, abbiamo organizzato manifestazioni di massa, abbiamo protestato davanti le case del Vicepresidente Dick Cheney e del Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, come pure davanti gli uffici e le case di delegati democratici e repubblicani. Abbiamo interrotto decine di audizioni del Congresso per parlare contro la guerra. Più e più volte, siamo state arrestate per atti di disobbedienza civile non violenta, abbiamo trascorso molto tempo in fredde, tetre celle carcerie. For il nostro lavoro di dire la verità al potere e di opporci a una guerra illegale, immorale, siamo state attaccate brutalmente per essere “non patriottiche” e trattate come traditrici. Gruppi conservatori cominciarono a venire ogni mercoledì sera a Washington, DC, a picchettare la nostra sede e lanciarono una campagna per cercare di farci sfrattare. Le lettere minatorie, le minacce di morte e le telefonate violente erano una costante. La polizia a Capitol Hill diede un giro di vite sulle attiviste di CodePink e alcuni giudici emisero ordinanze per tenerci lontane dal Campidoglio. A una delle nostre co-fondatrici, Diane Wilson, fu addirittura bandita da tutta Washington, DC, per un anno. Alcune di noi scoprirono che i nostri nomi erano stati messi su un database criminale dell’FBI, cosa che ci causò tante difficoltà quando viaggiavamo all’estero per il nostro lavoro di pacifiste.
Parlando presso la Heritage Foundation nel 2007, quando la guerra già si trascinava da cinque devastanti anni, il presidente George Bush esortò il Congresso a passare più tempo ad ascoltare i comandanti militari sul terreno in Iraq e meno tempo a “rispondere alle richieste delle dimostranti di CodePink”. Vorremmo solo che il Congresso, e George Bush, avessero ascoltato CODEPINK e i milioni di manifestanti già nel 2002, quando avvertivamo che attaccare l’Iraq sarebbe stato disastroso. Non c’è nessuna decisione più grave che portare in guerra la tua nazione. Non c’è niente di più criminale che basare la guerra sulle menzogne. E non c’è niente di più miserando che evitare di perseguire chi ci ha portati alla guerra sulla base di bugie. Oggi siamo a questo punto: di fronte agli inganni colossali dell’amministrazione Bush, Barack Obama, ancor prima di assumere ufficialmente la presidenza nel 2009, disse: “Abbiamo bisogno di guardare avanti, non indietro”. Cioè decise di ignorare l’irresponsabile invasione di Bush, un’invasione che continua a ripercuotersi nell’attuale bagno di sangue in Medio Oriente, compresa la creazione dell’ISIS . Ma il fatto che nessuno fu chiamato a rendere conto significa che oggi molti degli stessi architetti dell’invasione dell’Iraq, dal generale David Petraeus a John Bolton, può entrare a far parte dell’amministrazione Trump e portarci in una nuova guerra, contro l’Iran. Ecco perché il Processo CODEPINK è così importante, perché coloro che non riescono a imparare dalla storia sono condannati a ripeterla.
Medea Benjamin è cofondatrice di CODEPINK: Donne per la Pace e di Global Exchange
Traduzione di Leopoldo Salmaso-Pressenza
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