La recente sentenza del TAR di Milano – che ha sospeso il test di ingresso previsto per le discipline umanistiche all’Università Statale – ha costretto il Ministro Fedeli a prendere posizione su un tema caldo, che da anni divide parte degli studenti e mondo accademico. Quello del numero chiuso.
“Ad ogni convegno diciamo che in Italia ci sono pochi laureati, che siamo il penultimo Paese in Europa, poi vediamo il numero chiuso allargarsi. Evidente è la contraddizione”, ha detto Fedeli al Forum Ambrosetti di Cernobbio. È però giusto individuare nella selezione in ingresso il problema – o uno dei problemi – dell’università italiana?
Nei rapporti che riguardano il mondo accademico europeo non si accenna al numero chiuso. E molti Stati che scalano la classifica di cui parla il Ministro hanno rigidi criteri di accesso all’università. Secondo l’Eurostat, nel 2015 gli studenti in Italia erano 1.8 milioni. In Regno Unito, Francia e Germania rispettivamente: 2.3, 2.4 e quasi 3 milioni. Ma la loro vera “fortuna” sono quelli stranieri, che qui da noi non arrivano (come dice l’OCSE). Se avessimo gli stessi numeri dei Paesi appena citati, il totale di iscritti in Italia non sarebbe poi lontano dalla media europea – fatto il rapporto con la popolazione di ciascuno Stato.
Ma allora qual è il problema?
Ce lo spiega l’ultimo rapporto biennale ANVUR: tanti si perdono per strada. Ed è una questione che riguarda soprattutto lauree triennali e ad accesso libero – ecco sfatato definitivamente il mito espresso dal Ministro Fedeli.
In Italia ottiene il diploma nei tempi stabiliti solo il 27% delle matricole. Dopo cinque anni, quindi ben fuori tempo massimo, si raggiunge appena il 49%. La dispersione universitaria è una piaga che affligge soprattutto il Sud e gli studenti che vengono da istituti tecnici o professionali. Inoltre, se sommiamo coloro che abbandonano l’università dopo il primo anno (14%) a coloro che cambiano università e/o facoltà dopo lo stesso periodo (15%), notiamo che uno studente su tre si rende immediatamente conto di aver fatto una scelta sbagliata. Come se mancasse qualsiasi tipo di orientamento alla vita accademica e professionale durante le scuole superiori.
Tutte le percentuali (altissime) di cui abbiamo parlato finora dimezzano se si prendono in considerazione facoltà come Medicina o Farmacia, tradizionalmente a numero chiuso. Rendere più complesso l’accesso all’università crea quindi studenti più determinati e consapevoli. Riassumendo: i problemi che affliggono l’università italiana sono: la mancanza di risorse, la bassa attrazione di studenti stranieri e, soprattutto, l’altissimo tasso di abbandoni che riguarda proprio le – molte – facoltà ad accesso libero.
Si può quindi, anche a fronte di un doveroso aumento di fondi per l’università, disperdere preziose risorse su un numero di studenti che non si laureerà mai? Ovvero: è giusto permettere a chiunque di accedervi, all’università, o solo a chi ha buone probabilità di uscirne?
Giovanni Succhielli
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