Occuperemo di nuovo le piazze per dire che l’obiezione di coscienza è una delle forme di violenza che viene agita ogni giorno contro le donne. Sentiamo forte l’urgenza che il 28 settembre sia una giornata di lotta per rispondere all’attacco feroce che mai come in queste settimane ci sta riguardando.
I fatti di cronaca delle ultime settimane e il modo indegno in cui gli stessi sono stati trattati, dai media come dalle istituzioni, hanno ormai svelato che cosa è in gioco quando si parla della violenza di genere: il corpo delle donne è un terreno oggetto di conquista, un terreno da espropriare. Questo è lo sguardo alla base della cultura patriarcale che porta al conseguente gesto della violenza maschile e alle sue molteplici giustificazioni. Oggi, nello stato di emergenza e di crisi permanente in cui viviamo, quel gesto trasforma i nostri corpi in un campo di battaglia su cui tracciare nuove linee di confine. La violenza maschile diventa lo strumento utile a legittimare e imporre, allo stesso tempo, il ritorno all’ordine delle donne e delle soggettività fuori norma, così come le politiche autoritarie e razziste.
Ed è così che quando a compiere la violenza è un migrante diventiamo le “loro donne” – proprietà dei “patri uomini” – da difendere contro l’invasione straniera. Poi, un attimo dopo, se a “cadere in tentazione” è il maschio italico, magari in alta uniforme, sotto sotto è colpa nostra, delle nostre abitudini leggere e indecorose, del femminismo che ci ha instillato la falsa credenza nell’autodeterminazione, nell’autodifesa, nella libertà. Il nostro corpo allora andrebbe coperto, circondato da una “corazza protettiva”, secondo le ormai celebri parole del “manuale per le donne” de Il Messaggero, e perché no, costretto tra le sole mura domestiche. Del resto, ce lo insegna il senatore D’Anna, il desiderio maschile è “istinto primordiale”, se non teniamo conto di ciò, vuole dire che un po’ ce l’andiamo a cercare!
Se a morire, invece, è una ragazza di 16 anni, uccisa da un ragazzo di 17, la cronaca nera torna di nuovo utile a derubricare il fattaccio a trama usurata da romanzetto rosa-nero – la gelosia, il fidanzatino, la devianza, la droga – e a occultare questioni ben più scomode. Sarebbe, infatti, il caso di cominciare a interrogarsi sui modelli dell’identità maschile piuttosto che stilare vademecum antistupro.
Rifiutiamo la cultura del possesso che innesca la violenza maschile. Rifiutiamo la retorica su cui si fonda: il “destino biologico” di fragilità e inferiorità a cui saremmo naturalmente assegnate. È questo che vogliono farci credere nelle corsie degli ospedali, quando schiere di obiettori ci impediscono di scegliere quando, come e se diventare madri o quando la nostra vita vale comunque meno del feto che portiamo. È questo che ci ripetono nelle aule dei tribunali, quando nei processi per stupro diventiamo noi le imputate, o quando non possiamo decidere se procedere o meno contro il nostro stalker. È questo che scontiamo senza indipendenza economica, con i salari più bassi dei nostri colleghi, con le molestie sul lavoro, con la cura della famiglia sempre più sulle nostre spalle.
Non accettiamo il ricatto della paura, che vuole le strade delle nostre città come savane infestate da predatori, da cui ci si può difendere solo rinunciando alla libertà di muoversi e al prezzo di una diffusa militarizzazione e videosorveglianza. La nostra difesa non la deleghiamo perché le strade sicure le fanno solo le donne che le attraversano.
Uno stupro è uno stupro, e a stuprare sono gli uomini, al di là della loro nazionalità, provenienza o estrazione sociale. Inoltre a commettere violenze sono nella maggioranza dei casi fidanzati, mariti, amanti, ex compagni, datori di lavoro.
È arrivato il momento di tornare in piazza, a gridare che respingiamo ogni forma di violenza e di strumentalizzazione sui nostri corpi. Razzismo e sessismo si giocano, infatti, sui corpi delle donne migranti e native. Lo mostrano le politiche di blocco delle frontiere, che negano la libertà di scegliere dove e come muoversi consegnando le vite delle donne migranti alla morte, alla violenza sessuale, allo sfruttamento. Ma anche la violenza del razzismo istituzionale messa in campo nelle nostre città, come hanno mostrato gli idranti di piazza Indipendenza a Roma, utilizzati contro chi rivendicava(no) il diritto a decidere come vivere.
Il 28 settembre le donne saranno in piazza per la giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro [www.28september.org]. In Italia, seppur formalmente garantito dalla legge 194, è nei fatti progressivamente negato. L’obiezione di coscienza ha raggiunto la media nazionale del 70% di medici obiettori ed è una delle forme di violenza che viene agita ogni giorno contro le donne. Il 28 torneremo a chiedere che l’aborto sia ovunque depenalizzato, garantito e sicuro, un diritto per le donne di tutti i paesi.
Non solo, in Italia i fatti di cronaca delle ultime settimane e il modo indegno in cui gli stessi sono stati trattati, dai media come dalle istituzioni, hanno svelato chiaramente che quando parliamo di violenza di genere è in gioco il corpo delle donne come oggetto di conquista e terreno da espropriare. Questo è lo sguardo alla base della cultura patriarcale che porta al conseguente gesto della violenza maschile e alle sue molteplici giustificazioni.
Sui nostri corpi e della nostra vita decidiamo solo noi, donne, trans, queer…
Torneremo a gridare che se questa è guerra contro le donne, noi risponderemo!
Ve la siete cercata!
Libere dalla paura, unite nella solidarietà!
Non una di meno Roma
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